Mentre cammino attraversando il colonnato, occhi bassi e fiori in una mano, non posso fare a meno di ripensare alla telefonata con mamma.
Non ce l’ha fatta a resistere: nonostante le avessi detto già di no mille volte è stata capace di telefonare anche mentre stavo per entrare per chiedermi se volevo che mi accompagnasse.
“Prendo lo scooter e in dieci minuti sono là, se mi aspetti ci beviamo un caffè insieme e poi andiamo”
Mi sono arrabbiata ma non le ho risposto male, lo so che lo fa perché mi vuole bene e mi vuole proteggere, anche se ormai non sono più una bambina.
Ma questa cosa la devo fare da sola, non importa se e quanto mi farà male.
Esco dal colonnato e per un momento mi sento spaesata. Alla fine non sono mai stata qui.
Sì, forse una volta, tanti anni fa, ma se è successo non ricordo comunque nulla.
Per fortuna ho una mappa con le indicazioni che mi hanno gentilmente stampato all’ingresso, e so che adesso devo girare a sinistra e salire sopra quel terrazzamento che i romani chiamano “il pincetto”.
E’ il luogo dove si trovano le tombe più vecchie, quelle più prestigiose, e quelle dei veri romani.
Giro intorno alla zona centrale, sto rimandando il momento, poi mi inoltro in uno dei corridoi e finalmente la vedo.
Una lapide bianca con molte fotografie, quasi tutte di persone che portano il mio cognome: la tomba di famiglia.
Conosco molti di questi parenti di nome, di qualcuno so anche la storia, ma ne avrò conosciuti di persona solo due o tre.
Uno di questi è mio padre.
Mi avvicino piano e guardo la fotografia.
A casa non ci sono sue foto, mia madre le ha dovute togliere tutte perché ogni volta che ne vedevo una davo di matto.
So che conserva da qualche parte l’album del matrimonio, e sul suo computer ha scaricato tutte le foto di mio padre.
Forse ne avrà anche altre ma io non lo so, non le ho mai cercate.
E quindi ora fatico a riconoscere quest’uomo, fissato nel tempo nella sua maturità.
Mi avvicino ancora: ormai sono qui, non posso tornare indietro, anche se ho lo stomaco sottosopra.
Lo guardo con attenzione, sono stupita della somiglianza.
Abbiamo gli stessi occhi, e quello fa molto.
Per un minuto non respiro, poi prendo fiato, mi distraggo sistemando i fiori, tolgo qualche rametto, spazzo via le ragnatele.
Poi non ho più nulla da fare, e sono costretta a guardare. E a pensare. E a capire.
Per questo sono qui, per capire.
Per capire perché in questi dieci anni mi sono rifiutata di averti con me, papà.
Perché sono tanto arrabbiata con te, così tanto da non riuscire ad accettare quello che hai fatto.
Perché anche se tu lo hai fatto per me, io non volevo, e non ti ho perdonato.
Ma non so perché, ora me ne rendo conto.
E lo sai, perché sono sicura che lo sai, che se non avessi incontrato Gianluca forse sarei ancora arrabbiata con te.
Sai, alla fine se ci penso Gianluca è come te. Forse non è un caso.
Non ha neanche trent’anni, ma è intelligente, curioso, esuberante.
Mi fa incazzare il più delle volte; anzi, mi fa incazzare in continuazione, ma quando mi ha chiesto se volevamo andare a vivere insieme gli ho detto subito di sì.
Mamma non è stata contenta, immagino che te ne renderai conto.
Anche se mi sono laureata in fretta, e bene, voleva che facessi un master all’estero, e lo farò comunque ma non è quello il punto.
Non vuole staccarsi da me, e non vuole che io acceleri così tanto, ma io sono più matura di lei alla mia età.
E tu sai perché. Per colpa tua. O merito tuo.
Non sono una ragazzina di vent’anni o poco più. Sono una donna, sicura, convinta.
Saresti orgoglioso di me, mi piace come sono diventata.
E mi piace l’idea di avere una persona a cui dedicarmi, non ho paura di iniziare una vita insieme.
Ma.
Ma Gianluca mi ha voluto parlare l’altra sera.
A tradimento, maledetto bastardo.
Eravamo a cena fuori, stavamo discutendo dei mobili della casa che abbiamo preso in affitto, parlando di soldi, di lavoro, insomma della nostra vita, e lui a bruciapelo mi ha detto:
– Parlami di tuo padre. –
– No. – è stata la mia risposta secca. Senza discussioni.
Lui non ha detto niente all’inizio.
Ha bevuto un po’ di birra, guardandomi negli occhi. Avevo le labbra serrate e gli occhi duri, lo sentivo.
E sapevo che non avrebbe mollato.
Perché te l’ho detto: è come te.
Alla fine mi ha preso la mano, me l’ha carezzata per un po’ guardandola, poi ha alzato gli occhi per fissarli nei miei, e ho capito che avrei perso.
– Io non posso vivere con una persona che si trascina dietro un peso del genere. Non posso pensare di costruire qualcosa se prima non ci liberiamo delle macerie. Non è un ricatto il mio, ma voglio che tu ti apra completamente a me, come io mi sono aperto a te. Se c’è una parte di te che mi è preclusa, allora ti devo chiedere di farmici entrare, oppure aspetterò. Ti voglio bene, penso che tu sia la donna che voglio per tutta la vita, ma non così. –
Ho iniziato a piangere. Cazzo se ci era andato giù duro.
E allora gli ho raccontato tutto. Piangendo a dirotto come non avevo fatto neanche da bambina quando mi sgridavi.
Gli dissi di quel giorno, che avevo preso un brutto voto, tu mi avevi sgridato e io ti avevo risposto male; che tu ti eri arrabbiato e mi avevi detto che non avrei più frequentato il pattinaggio finché non avessi recuperato con i voti e non mi fossi comportata bene.
Io ero ferita, ma non lo diedi a vedere, non lo faccio mai, lo sai.
Però eravamo in mezzo alla strada e non trovai niente di meglio che andarmene a testa bassa fingendo di guardare il cellulare, invece volevo solo punirti perché mi avevi sgridato.
E gli raccontai che tu avevi cominciato a chiamarmi.
– Giulia! Vieni qui. Ti ho detto: vieni subito qui! Giulia! Giulia! –
Gli ho raccontato che le tue urla erano dapprima urla di rabbia, poi improvvisamente cambiarono tono, ma io non lo capii.
Gli raccontai di quella macchina che sbucò improvvisamente dal nulla, o almeno così mi sembrò, e gli raccontai di una specie di tornado che mi scaraventò contro una macchina parcheggiata, rompendomi due costole.
Quel tornado eri tu, ti eri buttato di corsa in mezzo alla strada e mi avevi spinto verso il marciapiede, e quando mi girai, dopo quel rumore terribile, eri lì, spezzato in due, finito.
Un minuto prima ero una ragazzina arrabbiata, un minuto dopo ero un’orfana persa.
Per colpa tua, pensavo.
Perché mi avevi sgridato.
Perché avevi voluto fare l’eroe.
Perché mi avevi abbandonato.
Tutto questo ho raccontato a Gianluca, piangendo come piango ora, e sperando che gli bastasse sapere quello che non avevo raccontato a nessuno.
Ma come immaginerai, visto che sono qui, non gli è bastato.
– Tuo padre non è un eroe, Giulia. Non crederai mica che lui abbia pensato a qualcosa in quel momento? Tuo padre sapeva che tu eri la persona più preziosa al mondo per lui, e che avrebbe dovuto proteggerti a tutti i costi, anche sacrificando se stesso, se fosse stato necessario. E così ha fatto. Ma non aveva intenzione di essere un eroe, né di abbandonarti. Ha fatto solo il suo dovere, quello che tu faresti per i tuoi figli, per i nostri figli, un giorno. Ti ha regalato una bella vita, te l’ha regalata due volte. Come fai ad essere arrabbiata con lui? Devi andare oltre. E’ il momento giusto. Questo è il momento. –
E lo sai? aveva ragione.
Ho parlato con mamma, le ho detto che volevo venire a trovarti.
Mi ha chiesto se volevo vedere le foto, e le ho detto di no. Dopo, casomai; dopo le rivedrò, ma adesso no.
Adesso volevo solo dirti che mi dispiace, che anche se penso di essere una donna matura, in realtà per tutti questi anni mi sono comportata come una bambina.
Ma che ora ho capito.
Che non sei un eroe, e che non volevi farmi del male.
Sei un uomo normale, e ti ringrazio per questo.
Potrò finalmente parlare di te, e dire “Mio padre? Era una persona normale, mi dispiace che non ci sia più”.
Spero di essere normale come te, in questa vita così difficile che facciamo tutti.
Ci vediamo papà, tornerò presto.
Photo by rodocarda