Ogni giorno nei “salotti buoni” della TV italiana si discute di lavoro, di disoccupazione. Tutti d’accordo: un piano di lavoro per i giovani, cancellare dal quotidiano italiano la precarietà. Da dove cominciare? Naturalmente dall’articolo 18. Quella norma della legge 300 del 20.5.1970, una storia tormentata lunga una vita. Numerosi sono stati e sono i detrattori, pochi i difensori i giuslavoristi smemorati di questa nobile norma del diritto del lavoro in Italia.Tante sono le ricette per far partire il lavoro, l’economia,ma tutte -vedi caso-transitano da un impervio luogo che impedisce la crescita: il “famigerato art.18”.
Una scrivania, una sedia presidenziale e sul tavolo: la stesura del piano lavoro. Fatto. Una rivoluzione degna di Niccolò Copernico : “cancellare i contratti a progetto, ed immettere nel circuito lavoro i contratti a tempo indeterminato”, fermo restando che nel contratto venga inserita la seguente voce: Il datore di lavoro ha la facoltà di licenziare in qulsiasi momento e senza obbligo di reintegro il lavoratore. Per i lavoratori “diffidenti” il padrone può fissare in busta paga la somma destinata all’indennizzo. Ma vuoi vedere che alla fine, per uscire dalla crisi economica, bisogna eliminare fisicamente il “vecchio e caro” art.18? E’ risaputo che l’articolo in questione riguarda semplicemente delle regole contrattuali . Si continua a parlare di modifiche contrattuali a fronte di un lavoro che non cè.
Con queste riforme che intervengono solo sui contratti,non si và da nessuna parte, rischiamo di creare ed “omologare” la figura, del lavoratore working poor, (termine usato per descrivere persone e famiglie che rimangono poveri, anche se hanno un lavoro regolare) per usare un termine inglese di moda, cioè del lavoratore povero. Si continua a parlare di “regole” quando siamo di fronte ad un banco di nebbia.
Scrisse Charles-Louis de Montesquieu, filosofo e giurista francese: “un uomo è povero non già quando non ha niente, ma quando non lavora”.
Aldo Mucci