Se non fosse stato per l’irrazionale gesto compiuto da Luigi Preiti, il 49 enne che davanti a Palazzo Chigi ha sparato a due carabinieri, il cinquantenne brigadiere Giuseppe Giangrande e il trentenne Francesco Negri, si poteva dire che il potere politico è tornato tranquillamente – o meglio è rimasto -, con buona pace di tutti, nelle mani di coloro che nell’ultimo ventennio hanno governato l’Italia portandola al disastro.
A rompere la “tranquillità”, il gesto insensato – ma fortunatamente isolato – che certo non è di buon auspicio per il nuovo governo il cui giuramento è stato macchiato dal sangue di due carabinieri. L’Italia è un paese in cui la crisi si acuisce e si insinua sempre più nella quotidianità dei cittadini. Finora gli italiani avevano vissuto in solitudine e dignità le proprie difficoltà economiche. Basti ricordare i numerosi suicidi avvenuti nell’ultimo anno, dovuti a una disperazione mai esternata per soluzioni che la politica non è stata in grado di dare. Mai nessuno però era sceso in piazza impugnando la pistola e sparando davanti ai palazzi del potere politico perché strangolato dallo sconforto scaturito da questa difficile congiuntura politico-economica e sociale.
Luigi Preiti, il 49 enne calabrese residente in Piemonte non è uno squilibrato – ha affermato il fratello – ma un uomo disperato rimasto senza lavoro, con due matrimoni falliti alle spalle e col vizio del gioco. Come ha confessato lo stesso attentatore ai magistrati, il suo obiettivo non erano i carabinieri ma i politici a cui non gli è stato possibile avvicinarsi. Un gesto da condannare in ogni caso, poiché la violenza non risolve i problemi, nè quelli personali, nè quelli del Paese.
Quanto accaduto, è comunque sintomatico di un malessere sociale che serpeggia per tutto il Paese. Malessere che si era svelato anche nelle lacrime di molta gente che era scesa in piazza per contestare la rielezione di Giorgio Napolitano; rielezione che lasciava presagire “l’inciucio” con la successiva formazione di un governo PD-PDL che avrebbe stravolto la volontà degli elettori accantonando quella voglia di cambiamento che a gran voce giungeva da più parti.
Nulla invece sembra essere cambiato, se non nello svecchiamento dei volti al governo, oggi formato da più donne e meno vecchi politici di lunghissimo corso. Fuori i big, ma dentro i loro uomini più fidati, per mantenere un equilibrio tra le parti tutt’altro che semplice. Un equilibrio che potrebbe venire meno qualora quella che Berlusconi definisce una persecuzione giudiziaria messa in campo dalla magistratura nei suoi confronti, dovesse continuare. Un non cambiamento, sul quale ha così tuonato Beppe Grillo: “Con il governo Letta è resuscitato Barabba”. Con queste parole Beppe Grillo ha risposto ad Enrico Letta, reo di aver replicato a un suo tweet sul 25 aprile con queste parole: “Dio è morto ma dopo tre giorni è risorto”. L’operazione governo Letta, per Grillo avrebbe dato nuovo slancio a Silvio Berlusconi, resuscitandolo da una morte politica che era in procinto a realizzarsi qualora Stefano Rodotà fosse stato eletto alla Presidenza della Repubblica per poi dare mandato alla formazione di un governo PD-M5S-SEL. Pessimismo sul governo appena nato che Grillo definisce una Famiglia di mostri, mentre SEL si è già posto all’opposizione assieme alla Lega di Maroni, il quale ha sentenziato che “nel nuovo governo c’è poco nord e non avrà vita lunga”.
Molte le incognite sul nuovo governo e sulla sua potenziale durata. Incognite legate alle divisioni interne del PD – i dissidenti potrebbero non votare la fiducia, atto con conseguenti espulsioni e relativa scissione – e alle vicissitudini giudiziarie di Berlusconi che, qualora dovessero volgere a suo sfavore, potrebbe, come ha già fatto col governo Monti, staccare la spina per un ritorno alle urne.
Il governo formato da Enrico Letta vede il vicepremier Angelino Alfano al Viminale, Anna Maria Cancellieri alla Giustizia, Fabrizio Saccomanni all’Economia, Emma Bonino agli Esteri, Mario Mauro alla Difesa, Flavio Zanonato allo Sviluppo Economico, Maurizio Lupi alle Infrastrutture e Trasporti, Nunzia De Girolamo all’Agricoltura, Maria Chiara Carrozza all’Istruzione, Beatrice Lorenzin alla Salute, Massimo Bray ai Beni Culturali e Turismo, Andrea Orlando all’Ambiente, Enrico Giovannini al Lavoro. Seguono i ministri senza portafoglio con Enzo Moavero Milanesi agli Affari Europei, Graziano Del Rio agli Affari Regionali e Autonomie, Carlo Trigilia alla Coesione Territoriale, Dario Franceschini ai Rapporti col Parlamento, Gaetano Quagliariello alle Riforme Costituzionali, Giampiero D’Alia alla Pubblica Amministrazione, Josefa Idem allo Sport e Cecile Kyenge all’Integrazione. La nomina di quest’ultima, il primo ministro di colore della Repubblica Italiana, non è stata digerita dai leghisti pronti a fare opposizione totale al ministro per l’integrazione.
A favore della durata del governo, il carisma e la capacità di mediazione di Enrico Letta, prodotto di quella scuola democristiana in cui hanno mosso i primi passi in politica personalità come Angelino Alfano, Dario Franceschini, Matteo Renzi, Maurizio Lupi e Mario Mauro. Gente che fa parte di questo governo o comunque, si è espressa per il suo sostegno.
Un governo del compromesso e delle diverse anime, dove la ricerca delle soluzioni alle problematiche che attanagliano il Paese potrebbe costituire il miglior elisir di lunga vita per una longevità tutta da sperimentare e su cui nessuno oggi sarebbe disposto a scommettere un soldo bucato.
Totò Castellana