– Come facevamo quando non c’erano? Come ci incontravamo? Insomma anche di notte, a volte dopo giorni, dopo settimane, senza un appuntamento, senza un luogo fisso, certo, senza nessun accordo, nessuna conferma. Ed era meglio forse, che un appuntamento poteva saltare, poteva accadere qualcosa, insomma qualunque cosa, capita, come avremmo fatto ad avvisarci? –
Esattamente come abbiamo fatto, per anni. Ma non ha senso che Marika risponda ancora, ancora a una domanda che da un po’ per Gianni sembra sia diventato un chiodo fisso, quasi il fulcro, la chiave di lettura, di un passato di cui non si è saputo liberare, non si è voluto liberare, che gli ritorna ciclico nei giorni, nella mente, tra le dita e sulla pelle, gli chiede spazio, dal di dentro, che fuori quel passato non c’è più, non c’è mai stato, non l’ha mai scelto. Non ha senso non perché non può capire, che forse è vero, forse non ha mai capito, non ha mai voluto farlo, e la domanda forse è davvero il fulcro, la chiave, Come facevamo? Senza sentirci. Ci sentivamo, sarebbe la risposta, ci sentivamo, senza telefoni, senza cellulari, senza messaggi, mail, chat, computer, social, ci sentivamo. Unica linea attiva il desiderio. Che si sentiva. Che chiamava forte, potente, prepotente. Che ci metteva in strada, giorno e notte uguali, a cercarci, fino a trovarci. Senza. Senza bisogno di perdere tempo a chiedercelo, ad organizzarci, avvisarci, programmarci, predisporci, tessere tele di parole da disfare quando poi, come oggi, basta uno squillo – quello a cui hai risposto, quello che ti ha portato a farmi ancora questa stupida domanda, Come facevamo? – a spegnere un incendio, quello che ti ha portato, che ti porta e ti riporta qui da me, ammesso che si possa poi chiamarlo incendio, quello che scoppia a tempo, programmato, incasellato, memorizzato, confermato.
– Scusami, un imprevisto, devo andare. Ti chiamo appena posso. –
Non ha senso non perché non può capire, non ha mai capito, e non ha senso non perché non c’è più tempo adesso, deve andare, non ha senso perché per lei non ha più senso, da tanto tempo, non hanno senso le risposte e le domande anche, lei se le è fatte tutte e si è risposta.
Qualcuna ancora forse dovrebbe farsela, sul tempo che ancora gli concede. Non quello dell’amicizia o degli affetti, delle condivisioni, degli spazi comuni, che inevitabilmente restano, e neanche è giusto che scompaiano – di questo Marika è più che convinta – quello delle domande, della memoria, delle mani indietro a frugare in un passato che per lei è lontano e chiuso, in una trama di ricordi che per lei non ha più buchi, i vuoti li ha riempiti tutti, che era necessario, è il solo modo per andare avanti, definirsi, quello delle mani addosso, a chiedere emozioni che non tornano, non possono, che erano le sue, di Marika, quelle emozioni che lo emozionavano, e Marika la scatola l’ha chiusa, tanto tempo fa, gli spazi pieni non hanno spazio, inutile tenerli aperti .
Se ne è fatta a volte. Domande. A volte si è risposta anche. Risposte come scuse a volte a nascondere solitudini o bisogni, risposte amare e ciniche anche Mi prendo quello che mi piace, vestite di una vendetta che non le compete, che mai ha cercato, Adesso è lui, lui che ha bisogno, o travestite invece di altruismo, ma questo è raro, Gli servirà a capire, magari ad imparare a scegliere domani, e che sia raro è anche giusto poi, domani è così tardi ormai, ora che è tanto che di scelte è difficile che ne capitino, si è fatto tardi per certe cose, per i bivi, quando tutta la vita ti è passata tra le dita al punto che ancora guardi indietro e ti domandi Come facevamo?
Sembra che lei lo sappia, Marika, perché lo fa. E forse lo sa davvero, con tutta quell’acqua a scrosciarle addosso prima di incontrarlo. Non per lui, no. Non per farsi bella, pulita, profumata, desiderabile, come un tempo, un tempo quando, prima di cercarlo – mentre già lo cercava, mentre sentiva che lui la cercava, le mani sue già sulla pelle, ansiose, ad aspettarla a trascinarla a sé – prima di incontrarlo quel nuovo incontro era già battaglia, la prima e l’ultima ogni volta, cui prepararsi come per il giorno del battesimo o del funerale, del matrimonio o del patibolo, dell’inizio o della fine, meglio la fine, sempre. No; non più, da tempo. Per convincersi, per convincere sé stessa a cedere, a concedersi ancora: diluvi di acqua a lavarsi via sospiri ed emozioni che la incatenano in un mondo che non esiste più, da un pezzo, ammesso che sia mai esistito, a riprendersi la carne, il sangue, la vita, fuori dalle mura spesse dei pensieri, del dolore anche.
Mura bianche. Le mura di casa sua. Si chiede ancora Marika perché le abbia volute tutte così bianche. Bianche come la pelle che rifugge il sole e l’aria e la luce.
Mura spesse. A ispessirle strati su strati di ricordi e parole, e domande e risposte, necessarie.
La pelle no, quella è sottile, quasi trasparente.
Passano gli anni ed è strano, strano che non si ispessisca anche la pelle, non si faccia ruvida, o irsuta, o squamosa, che solide scaglie cornee non fuoriescano a rivestirla, a proteggerla, dagli ormai acidi effluvi di parole e suoni che da quelle mura tra cui si protegge le si rovesciano addosso, ininterrotte. Dalle carezze, dai baci, dalle mani, quelle vere, quelle vecchie, quelle nuove, da quelle sì, da quelle è ben protetta, quasi che tutto questo fluido continuo di ritorno, di rimbalzo da quelle spesse mura, sia diventato esso stesso pelle, quella trasparente, fatta di emozioni, che lei si lava via sotto la doccia perché la carne viva, respiri, di tanto in tanto. Lavarla via aiuta a non sentire. Il fuori e il dentro. A prendersi ciò di cui si ha bisogno. Di cui il corpo, la mente forse, in qualche posto, ha bisogno, non la pelle. Ammesso che ce ne sia. Bisogno. Che non sia capriccio. A questo le serve, Gianni. Gianni o Fabio, o Sergio, o. Non conta molto. A volte le serve smettere di sentire. La sua pelle addosso. Quella trasparente, fatta di emozioni, che si lava via, perché niente possa più toccarla, fuori dalle mura. Quella del desiderio. Che è altro dal bisogno. Che spesso, e allora è capriccio, muore nascendo ed il poco tempo investito a soddisfarlo non è che tempo sprecato.
E’ più questo che si domanda Marika, specie ora, ora che Gianni è uscito e tra le mura bianche accoglie la venefica pioggia come una benedizione, a ricoprirla ancora, a rigenerarla, a farle nuovamente male. E si risponde. Che non è sprecato, anche se è capriccio. Non è sprecato se per sentire gioia di quel dolore in cui si chiude, per indossarlo ancora un desiderio che non sa inseguire, non può far altro che spogliarsi. E tradirsi.
– Ci sei? –
Una finestra di chat lampeggia sul computer.
Una come altre.
Uno dei tanti strati ad ispessire queste mura in cui restiamo chiusi, la pelle trasparente non ha più bisogno di essere protetta.
Come facevamo, come ci incontravamo quando non c’erano? Quando non c’erano i telefoni, i cellulari, i messaggi, le chat, i computer, le mail? Ci incontravamo. Ci incontravamo e la pelle si sbucciava, si lacerava a sangue, si sporcava, si infangava, si infettava, si inspessiva. Di tempo mai sprecato nelle attese, di lacrime e di sorrisi, di ferite e cicatrici, di silenzi e di parole, di carezze e schiaffi, di labbra umide e di sesso, di appetiti e digiuni, di sonni perduti, di albe e di tramonti, di scie indelebili di odori che si facevano memoria. Ci incontravamo sulla pelle. Non sulle mura.
Confini invalicabili.
Marika si guarda intorno.
Bianco. Le mura bianche e spesse di una cittadella, la sua, gravide di incontri che non ci saranno mai. Nessuna ferita sulla pelle, nessuna lacerazione, nessuna infezione, nessun odore a marchiarti la memoria per sempre. Perché alcuni per sempre esistono.
Non occorre neanche lavarsi via la pelle, le emozioni, i desideri.
Moltiplicazione infinita.
Comunicazione globale. Sempre e dovunque. Con chiunque.
E con nessuno. Soprattutto.
I desideri dentro, i bisogni fuori.
Mura su mura a separarli, che la pelle non serve più.
Vicinissimi. Tutti, sempre.
Così assurdamente vicini da non sentire l’esigenza di toccarsi, il bisogno, il desiderio. Così vicini da non sentire più l’attesa, la distanza, le mani che si cercano, la pelle.
Che non serve più.
Chiusa tra mura spesse e bianche, invalicabili.
La pelle che ancora misura le distanze.
bello!
vero!