Giuseppe Di Piazza è stato cronista de: L’Ora negli anni ‘80, il quotidiano di Palermo in prima linea nel giornalismo antimafia, direttore delle più importanti testate italiane, non ultima Sette del Corriere della sera.
Giuseppe torna indietro, nel modo più dolce possibile, con l’indulgenza di chi riapre il baule che a volte, mettendo in ordine il solaio delle nostre esistenze, evitiamo accuratamente. Il ricordo. Ma non è solo una indulgenza alle vecchie fotografie, il ricordo adesso si posa placido sulla creatività dello scrivere un romanzo.
I Quattro Canti di Palermo (Bompiani 2012) trova questa affascinante collocazione, tra l’inventiva e i ricordi reali di troppa bellezza e troppo sangue, che Palermo ha copiosamente regalato nella sua vita. Un genere nuovo, lo potremmo chiamare truction, sperando si perdoni la cacofonia del termine, a metà tra truth -verità- e fiction. La storia di un Giovane cronista che incrocia quattro fatti di cronaca che lo segnano nel suo percorso, quattro, come i famosi Canti di Palermo.
I quattro canti di Palermo generano un quinto canto, quello dell’assenza, così si chiude il tuo libro, un atto d’amore verso una città tanto bella quanto controversa, eppure lascia sempre solchi di nostaligia in chi gli sta lontano, questo romanzo che tipo di amore per Palermo traccia?
E’ la storia, comune a molti che sono andati via, di un amore impossibile. E’ difficile sopportare la tanta luce e il tanto lutto di quella città.
I quattro racconti della Palermo degli “anni di piombo”, riportano a galla 4 fatti di cronaca realmente accaduti? A me personalmente la chiave è apparsa chiara nell’ultimo racconto del “ladro onesto”.
No, sono storia in parte ispirate a fatti di cronaca ma del tutto inventate. Si possono leggere in trasparenza vicende prese dalle cronache del tempo. In realtà ho voluto tratteggiare storie verosimili: il mio non è un libro-verità.
Si parla di un periodo durissimo della storia palermitana e italiana, gli anni 70/80, dove il clan dei corleonesi uccideva rappresentanti dello stato, delle istituzioni e dell’informazione, ma anche i propri rivali della mafia perdente. Tuttavia traspare una dolcezza e una indulgenza personale verso quel periodo. Ti sembra che nonostante l’orrore, chi “faceva antimafia” aveva un impegno più intenso, quasi amore verso una promessa di legalità?
Sì, certamente. Ma anche all’interno dell’antimafia – ricordiamolo – c’erano in quegli anni alcuni traditori. Servitori dello Stato che si misero al servizio dell’Antistato. Comunque, in chi faceva onestamente e con dedizione il proprio lavoro c’era un senso di missione che ritrovai, solo per fare tre nomi, nello sguardo limpido di Ninni Cassarà e in quello di Beppe Montana, funzionari di polizia, grandi investigatori, entrambi assassinati, e negli occhi di Mario D’Aleo, giovane capitano dei carabinieri che aveva preso il posto di un altro capitano, Emanuele Basile, alla guida della compagni di Monreale. Entrambi uccisi, a poco tempo di distanza. Nei primi anni Ottanta non c’era più il sornione gioco delle parti, messo in scena dalla mafia, e magnificamente descritto da Sciascia nel Giorno della Civetta. C’era la furia ottusa e omicida dei corleonesi di Riina.
L’episodio del padre che “ha fatto scomparsi” i figli sembra quello più duro da descrivere per il giornalista, protagonista delle storie, la mafia ordinaria non aveva ancora toccato quelle punte di orrore?
Quell’episodio è un pastiche letterario. Volevo far capire a che punto di crudeltà può arrivare il senso dell’onore.
Che sia un romanzo autobiografico non c’è dubbio, troppi elementi portano verso l’autore, troppe righe di passione e di vista, troppi episodi in cui risultano coinvolti tutti e 5 i sensi in descrizioni e racconti, colpisce la sua “decantazione” di tanti anni, hai atteso tanto nel mettere ordine a questi ricordi perché ti risultassero netti? Se scrivere è autoanalisi sembra che tu abbia “fatto pace” con questa parte di te adesso. È così?
Non si fa pace. Si trova invece la forza di affrontare la guerra del ricordo. A me la forza è stata data da alcuni accadimenti privati che hanno fatto da interruttore emotivo. La vita intorno a sé, la morte intorno a sé. Voglio solo dire, in conclusione, che il mio non è un romanzo autobiografico. Al massimo è di ispirazione autobiografica. La bellezza della letteratura sta proprio in questo: poter decidere di non aderire alla realtà. Il contrario esatto del buon giornalismo.