Se c’è una cosa che ha caratterizzato una certa imprenditoria siciliana – oltre al fare affari con le mafie – è la metamorfosi con la quale evolve ogniqualvolta viene toccata dalla giustizia.
“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, questo è quanto sosteneva Antoine-Laurent Lavoisier, chimico e fisico francese vissuto dal 1743 al 1794.
La stessa cosa potremmo dire per una certa finanza, forse non solo siciliana, ma che certamente alla Sicilia deve tanto in termini di esperienza e insegnamento.
Erano i tempi in cui i “Cavalieri del Lavoro” di Catania entravano in crisi a seguito di vicende giudiziarie che li avevano visti coinvolti.
Il processo poi si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati e l’archiviazione delle accuse di associazione mafiosa nei confronti dei ‘cavalieri’ che sarebbero stati costretti a subire la ‘protezione’ del clan Santapaola per necessità.
Una storia comune ai ‘cavalieri’, anche quelli ai quali il titolo venne revocato, dei quali si fa bene ad evitare di parlarne…
Nel 1994, in seguito ad un’inchiesta della DIA da cui emersero ulteriori interazioni ed intensi rapporti tra i cavalieri e Cosa Nostra, il giudice Giuseppe Gennaro impugnerà la sentenza, ma gli imputati saranno prosciolti ancora una volta in via definitiva.[17]
Un articolo del Sole 24 Ore durante quel periodo portava in auge l’Impresem, società dell’imprenditore agrigentino Filippo Salamone.
Un uomo venuto dalla gavetta, nato ad Aragona, il paese della provincia di Agrigento, nel quale il padre di Luigi Pirandello aveva una miniera di zolfo che si allagò nel 1903, causando la rovina economica della famiglia.
Salamone, al contrario, partito dal nulla dal paese dello zolfo, entrò nel mondo dell’edilizia dove farà la sua fortuna con sistemi molto ‘pratici’, grazie al democristiano Salvatore Sciangula, cognato del parlamentare democristiano Giuseppe Sinesio.
Nel 1986 Sciangula diventa assessore regionale ai Lavori pubblici, proprio nel periodo in cui le regioni del Sud si apprestano a gestire 120 mila miliardi di vecchie lire, stanziati dalla legge che ne prevede il coordinamento da parte dell’Agenzia per il Mezzogiorno e del Dipartimento.
Un fiume di denaro la cui prospettiva di gestione crea momenti di tensioni politiche ed economiche poiché tramite la Cassa per il Mezzogiorno fino a quel momento il grosso dei miliardi stanziati per il Sud passava per le casse delle aziende del Nord.
E secondo gli insegnamenti di Giovanni Falcone, segui i soldi e troverai la mafia, seguendo i soldi anche in questo caso si trovò la mafia.
Sciangula, lasciato Sinesio, passò con gli andreottiani di Salvo Lima, e garantendo però gli equilibri in Regione e intrattenendo buoni rapporti con il Psi, con il Psdi, con il Pri e con il Pli.
La necessità di gestire un flusso di denaro di quella portata, districandosi tra leggi e leggine di un sistema burocratico così complesso, e con una macchina amministrativa assolutamente inefficiente, lo portò a chiamare al suo fianco l’imprenditore Salamone, uomo pratico, esperto nel settore e con un concetto abbastanza elastico di come doveva essere gestita la cosa pubblica.
La bacchetta magica per molti affari da gestire allegramente senza rimanere impigliati nelle pastoie burocratiche, ma soprattutto senza poter distrarre con facilità somme di denaro destinate a scopi diversi, aveva un nome: Somma urgenza!
Di sommo tanto, di urgenza poca, visto che spesso vi se ne faceva ricorso per l’assegnazione di lavori pubblici che non sarebbero stati completati, se mai sarebbero stati completati, a distanza di decenni.
Uno strumento da sempre utile, che o è stato in passato così come certamente lo è e lo sarà in futuro per fare affari e rendere favori.
A quel fiume di denaro da gestire avrebbero preso parte le grandi imprese del Nord, quelle siciliane, ma anche la mafia, fin quando, con Salamone che abilmente si districava tra il mondo politico, quello imprenditoriale e quello mafioso, garantendo ad ognuno la propria l’indagine ‘Mani pulite’, condotta dall’allora pm Antonio Di Pietro, non mise in crisi – ovviamente giudiziaria – le attività del gruppo di Salamone.
Una storia già vista in precedenza con i ‘Cavalieri del Lavoro’ che ne determina il declino non appena la giustizia mette sotto la lente d’ingrandimento i gruppi imprenditoriali non proprio estranei agli accordi mafiosi.
Anche il declino di Salamone vide la nascita di un nuovo gruppo imprenditoriale nato dal nulla, da una piccola attività commerciale di famiglia, che entrò a far parte della discussa Impresem, la cui partecipazione in brevissimo tempo salì da poco più del 5% al 51%.
Si aprì così una nuova fase, quella degli ‘imprenditori coraggiosi’ che grazie a inquirenti e investigatori ‘distratti’ o incapaci – con qualcuno chiamato anche a far parte dei servizi segreti – gestirono per altri decenni flussi di denaro che andavano ad arricchire tanto i privati quanto le casse delle mafie, garantendo anche ‘favori occupazionali’ non soltanto al mondo politico ma anche a quello istituzionale.
E la storia si ripete, nonostante questa volta qualche attento magistrato s’insospettì della casualità per cui quando un gruppo imprenditoriale veniva attenzionato dalla giustizia, altri gruppi, spesso nati in pochi anni dal nulla, entravano a farne parte rinsaldandone la solidità economica.
Il dubbio era quello che molte operazioni servivano soltanto per evitare misure di prevenzione, trasformando la nuova classe imprenditoriale nella cassaforte degli imprenditori caduti in disgrazia.
Si ripartiva dunque con le indagini del ‘metodo Falcone’, segui il denaro troverai la mafia, che portarono a individuare i legami tra questa nuova classe di imprenditori con le mafie, con soggetti politici che favorivano le imprese, e l’immancabile Svizzera che – come era accaduto per l’ormai ex potente imprenditore Salamone – è la patria di quei fondi neri necessari a ungere le ruote del sistema politico per garantirsi gli appalti, e riciclare il denaro sporco nell’interesse di ‘Cosa nostra’ e degli ormai ex potenti imprenditori, che potenti, seppur di nascosto, lo restavano lo stesso.
Tra la ‘distrazione’ e l’incapacità di magistrati e investigatori, e grazie anche a una giustizia che procede al passo di lumaca, anche quei pochi processi che prendono avvio finiscono con il concludersi per quasi tutti gli imputati con la prescrizione.
È il sistema siciliano dell’impunibilità, o della ‘punibilità’ a distanza di altri decenni e dopo aver messo al sicuro i tesoretti che servivano a chi avrebbe assunto una veste ufficiale tornando a condurre operazioni nell’interesse degli imprenditori scomparsi di scena, di ‘Cosa nostra’ e dei politici, vecchi e nuovi, ai quali ancora una volta doveva essere garantita un cospicua fetta del bottino per ottenere nuove elargizioni di denaro pubblico.
Se in America, grazie alla ‘Public Works Administration’ in risposta alla Grande depressione, grazie a un programma di lavori pubblici finanziati con fondi federali si diede l’avvio alla ripresa economica tramite lavori pubblici su larga scala, in Italia i lavori pubblici sono serviti ad arricchire le tasche di imprenditori, politici, mafiosi e funzionari corrotti, così come ci insegna la storia dell’Impresem, della Romagnoli S.p.A., del Gruppo Ferruzzi, Lodigiani, della Cogefar-Impregilo, di Pizzarotti e altri gruppi.
Tra e grandi opere, la cui fattibilità e utilità sarebbe ancora tutta da verificare, il Ponte sullo Stretto di Messina, fiore all’occhiello del politico di turno, che stando all’aggiornamento del progetto definitivo del febbraio 2024, avrà un costo di 13,5 miliardi, più un miliardo di opere accessorie, per far fronte alle quali la legge di Bilancio ha stanziato 11,630 miliardi di euro fino al 2032.
9,3 miliardi a carico dello Stato, 718 milioni sul Fondo di sviluppo e coesione e uno 1,6 miliardi che peseranno sulle casse di Calabria e Sicilia.
Già 24 anni fa la il rapporto della DIA evidenziava come le famiglie di vertice della ‘ndrangheta si erano attivate per spartire con ‘Cosa nostra’ i potenziali profitti dell’immensa – per costi – quanto inutile opera.
Un sodalizio, quello tra ‘ndrangheta e ‘Cosa nostra’ già emerso in passato in ambito giudiziario nella gestione del traffico di stupefacenti e sull’infiltrazione mafiosa nella realizzazione di grandi appalti pubblici nella provincia di Messina.
Un salto di qualità per la ‘ndrangheta che mira a ottenere sempre maggiori spazi nel mondo degli negli affari economico-imprenditoriali, investendo i capitali illeciti derivanti dai traffici tradizionali.
Collegamenti già emersi in passato tra personaggi di spicco della mafia catanese e uomini di punta della ‘ndrangheta appartenenti al clan Morabito di Africo Nuovo.
E mentre si dibatte su mafia-appalti come unica causa delle stragi del ’92, dimenticando che Giovanni Falcone in Svizzera indagava sul riciclaggio, non ci si accorge che nulla è cambiato e che il sistema cambia pelle ma non la sostanza.
Un sistema che si rinnova, che cambia veste e uomini perché, come scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne ‘Il Gattopardo’, “Bisogna cambiare tutto per non cambiare niente”.
È quel ‘tavolino’ che a differenza di quello di Siino, Brusca, Salamone ed altri, nessuno sembra vedere.
Quello al quale siedono i rappresentanti delle ‘categorie’ (politica, imprenditoria, massoneria, mafia, istituzioni ecc) e che ogni qualvolta qualcuno di loro viene attaccato gli altri fanno quadrato, ma hanno già pronto chi lo andrà a sostituire quando la seconda volta verrà abbandonato a sé stesso facendosi carico delle proprie – e delle altrui – responsabilità.
Grazie al can can mediatico, l’attenzione si sofferma solo ed esclusivamente al dossier mafia-appalti, a tal punto che un giornale come il Dubbio, dall’aver riportato solo qualche anno fa che Brusca “aveva affermato che la strage di Via D’Amelio era da collegarsi anche al tema degli appalti”, oggi riconduce solo ed esclusivamente a questo tema le motivazioni delle stragi nelle quali persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
E quel “anche al tema degli appalti”, che fine ha fatto?
Dal ‘anche’ al ‘solo’ il passo è stato breve, lasciando che nulla possa cambiare un sistema perverso che certamente non può essere scardinato dalle indagini su connivenze e corruttele – che quando arrivano, arrivano tardi – senza azzerare quel nulla che è la struttura politica-amministrativa di questo paese, dal Nord al Sud e viceversa, senza fare sconti a nessuno, neppure al nostro passato.
Gian J. Morici