A renderlo noto è lo stesso generale che ha ricevuto, nel giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, un avviso di garanzia con invito a comparire.
Mori, ex comandante del Ros ed ex direttore del Sisde è indagato a Firenze per i reati di strage, associazione mafiosa e associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico.
L’indagine, coordinata dai procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli, ha come obiettivo l’individuazione dell’eventuale coinvolgimento di soggetti esterni a “Cosa Nostra” che avrebbero ispirato le bombe mafiose di via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano e san Giovanni in Laterano e san Giorgio al Velabro a Roma.
Un presunto coinvolgimento che riguarderebbe il mondo della politica che già era stato oggetto di indagini archiviate e poi riaperte.
Tra gli indagati nel corso di questi anni, spiccano i nomi di Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia, e l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, già deceduto.
Secondo l’ipotesi formulata dai pm, le stragi andrebbero viste all’interno di una strategia mirata a capovolgere il sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica – indebolendo il governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi – per favorire l’ascesa al potere di Silvio Berlusconi.
Per i pm Mori, “pur avendone l’obbligo giuridico, non impediva, mediante doverose segnalazioni e/o denunce all’autorità giudiziaria, ovvero con l’adozione di autonome iniziative investigative e/o preventive, gli eventi stragisti di cui aveva avuto plurime anticipazioni”.
Mori inoltre – secondo la Procura di Firenze – era stato “informato, dapprima nell’agosto 1992, dal maresciallo Roberto Tempesta, del proposito di Cosa nostra, veicolatogli dalla fonte Paolo Bellini, di attentare al patrimonio storico, artistico e monumentale della Nazione e, in particolare, alla torre di Pisa”.
Successivamente, sarebbe stato il pentito Angelo Siino, nel corso di un colloquio investigativo, a dichiarare che vi sarebbero stati attentati al Nord.
Mori era già stato processato, condannato a 12 anni in primo grado, e poi assolto in via definitiva, nel processo sulla Trattativa Stato-mafia, oltre che quello sulla ritardata perquisizione del covo di Totò Riina dopo la sua cattura e quello sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano.
Con la sua nota stampa, il generale Mori ha dato notizia di aver ricevuto dalla Procura della Repubblica di Firenze l’avviso di garanzia con invito a comparire per essere interrogato in qualità di indagato nell’ambito delle indagini sulle stragi del ’93.
“A Palermo – si legge nella nota di Mori , mi hanno processato per 11 anni, con l’accusa di aver ‘trattato’ con la mafia e siglato un accordo con Bernardo Provenzano per far cessare le stragi. La sentenza di condanna, in primo grado a 12 anni, poi spazzata via da quella di appello e di Cassazione, affermava che avrei ‘esortato’ e, quindi, sollecitato i vertici mafiosi a comunicare le condizioni per ritornare alla situazione di pacifica convivenza… che si era protratta sino alla conferma delle condanne all’esito del maxi processò e, dunque, per non commettere più le stragi”.
“Per i giudici di Palermo (facendo riferimento all’appello – ndr) fui mosso esclusivamente da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale, e fondamentale, dello Stato. Oggi vengo indagato per non aver impedito le stragi, quindi con una virata di 360 gradi rispetto al precedente teorema”.
Com’era prevedibile, la notizia di una nuova indagine a carico del generale Mori ha già suscitato sui social l’alzata di scudi in difesa dell’ex comandante dei Ros ed ex direttore del Sisde.
Tra i diversi utenti non manca qualche giornalista che scrive: “Chiaro che esista una certa magistratura che vive di rendita con le stragi di mafia, giocando con le suggestioni e la complicità di un certo giornalismo che rimbambisce l’opinione pubblica con dietrologie molto più demenziali del terrapiattismo”, ricordando come Mori è stato già processato a Palermo perché autonomamente ha agito con la finalità di fermare le stragi e “ora a Firenze lo inquisiscono perché non si sarebbe autonomamente mosso per prevenire le stragi continentali. Ancora qualcuno ha il coraggio di difendere una certa magistratura che solo nel nostro Paese ha la possibilità di imbastire processi basati su illazioni. E hanno il coraggio di ricordare Falcone e Borsellino, persone serie e pragmatiche. Che si sciacquassero la bocca”.
A chi scrive, così come ad altri utenti, sfugge che l’accusa a Mori al cosiddetto processo sulla trattativa Stato-mafia non riguardava affatto l’aver agito autonomamente con la finalità di fermare le stragi, ma il reato di violenza o minaccia ad un corpo politico, per porre fine alle stragi, garantendo in cambio un atteggiamento più morbido nei confronti della mafia stessa e dei boss in carcere, quindi un do ut des che nell’ipotesi in cui fosse avvenuto sarebbe stato assolutamente illegale oltre che immorale.
Un processo imbastito su un castello accusatorio fragile e concepito male, come comprovato dalle sentenze assolutorie in secondo grado e Cassazione.
Diverso dalle accuse odierne mosse a Mori, così come diverse sono le procure competenti.
Quella odierna è invece una difesa a spada tratta senza che ancora ci sia modo di sapere i contenuti del fascicolo d’inchiesta, così come da parte di altri utenti del social – riuniti in conclave – abbiamo assistito nei mesi scorsi alla condanna mediatica del colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo – che aveva partecipato alle indagini sulla “trattativa Stato mafia” e da consulente della Procura di Palermo aveva raccolto documenti riguardanti il generale Mario Mori – accusato dall’ex Lady Golpe (Donatella Di Rosa) di averle inviato video sessuali per ricatto.
Al di là di illazioni, fantasiose ricostruzioni giuridiche e non, rimangono i fatti.
Marcello Dell’Utri nel 2014 è stato condannato a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa essendo stato riconosciuto mediatore tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi.
Mario Mori, nel 2001, durante il governo Berlusconi, viene nominato prefetto e direttore del SISDE, il Servizio Informazioni per la Sicurezza Democratica.
Un incarico prestigioso a capo del servizio segreto italiano, quello stesso servizio segreto che indicò “il picciotto della Guadagna”, quel tale Vincenzo Scarantino, come vicino ad esponenti mafiosi.
Scarantino, da collaboratore di giustizia nei processi per la Strage di Via D’Amelio con le sue dichiarazioni portò a sentenze definitive di condanna all’ergastolo di persone innocenti.
Peccato che nel mondo della criminalità organizzata e non, Scarantino valeva quanto il due di coppe con a briscola a denari, e che i cosiddetti “servizi segreti” che avevano contribuito a “vestire il pupo” continuarono a non accorgersi che di “pupo” si trattava.
E torna in mente un episodio avvenuto nel corso di un processo qualche anno fa, quando teste il figlio del giudice Borsellino riferendosi ai servizi segreti – ma certamente volendo fare riferimento ad alcuni uomini e non a tutti – esternò un certo disappunto: In Italia sappiamo cosa sono i servizi segreti…
Gian J. Morici