– Je ne suis pas Napolèon, dico a Gigè, osservando i clochard matti che circolano per il Boulevard de Montparnasse, giù verso Avenue de Breteuil fino a Les Invalides.
– Ma hai un senso di onnipotenza molto sviluppato, Gigè ride, indicandomi in lontananza la presunta tomba di Napoleone Bonaparte, vicino la Tour Eiffel. Subito dietro Lulù e Rossù:
– Facciamo il giro largo, grida Lulù, andiamo a mangiare qualcosa Au chat perchés?
– Unni?, dico Moi.
– Au chat perchés, dice Gigè, un ristorantino famoso: si legge o scià perscé!
Fin qui ci arrivo anche Moi.
– Al gatto aggrappato, traduce Lulù.
– Aggrappato?, dico Moi, no pirciatu? Ci dissi lu surci a la nuci: tempu m’ha dari ca ti perciu.
– Ma chi ci nni trasi?, dice ridendo Gigè.
– Non rinunciare ai tuoi progetti, persevera e credici, che prima o poi! …
La passeggiata infatti è lunga. Finalmente, arriviamo. Ci sediamo. Lulù e Rossù leggono dai menù già pronti sui piccoli tavoli:
– Alòr?, dice il cameriere, sbucato all’improvviso, alle signore. A Moi e Gigè sembra trascurarci deliberatamente, per cui ci guardiamo in faccia, sornioni, attribuendo alla galanteria dei maschi francesi, camerieri compresi, questo atteggiamento. Mais il s’en fout proprio. Dico: magari anche noi al posto del cameriere ci saremmo rivolti per prima alle signore piuttosto che ai loro accompagnatori. Tuttavia, avvertiamo qualcosa di poco convincente nei nostri confronti. Non è fastidio. Allora cosa? Loro, le signore, titubano, perché stanno ancora decidendo, per meglio dire Lulù (che parla benissimo italiano e francese, Gigè a malapena l’italiano! E Moi no?), sta cercando di tradurre il menu a Rossù. Moi e Gigè in effetti anche noi pendiamo dalle labbra di Lulù, per cui decidiamo insieme cosa mangiare. Gigè si rivolge al cameriere cercando di impostare al meglio il suo precario francese, ma il cameriere ancora una volta il ne le calcule pas. Ridendo, Gigè si rivolge a Lulù:
– Vabbè, va’, diglielo tu!
Lulù finalmente indica i piatti scelti e il cameriere sembra memorizzare le nostre facce con un’occhiata intensa ma fugacissima associandole ad ogni piatto. E prima di andar via, si rivolge a Gigè e gli dice:
– C’est la femme qui commande!
Ah, ecco perché il ne nous a pas chié. Lo capiamo al volo e io gli rispondo, divertito, in siciliano:
– Minchia, tu tutti cosi capisti d’a vita!
Lui mi guarda ed esclama:
– Ah?, in francese puro. Gigè mi rimbrotta facendomi l’occhialino:
– Ma come, in siciliano gli dovevi parlare?
Lulù gli dice qualcosa sorridendo come a giustificarsi e il cameriere finalmente scompare.
– Talè, u sa chi ti dicu?, mi suggerisce acido Gigè, amunì a sittàrini o Cafè Procope, ca è ccà vicinu.
– Veru, dico Moi appoggiando l’idea, il più antico Cafè d’Europa. Ci andava pure Voltaire a prendersi il caffè.
– E u gelatu nostru, aggiunge Gigè.
– Come ‘il gelato nostro?’, chiede Rossù.
– Francesco Procopio dei Coltelli, siciliano di Acitrezza, facìa gelatu Mpaliemmu, ma poi nnu 1686, u vinni a fici ccà, Mparigi, di fronte la Comédie-Française, Rue des Fossés-Saint-Germain, preciso Moi, trionfante.
– Minchia, faccillu sèntiri a sti francisi de merde!, grida Gigè.
Come evocato, il cameriere ci porta i piatti. Ci lascia la facture, e se va sufficiente.
– Sicunnu mia chistu capì tutti cosi, dice Gigè.
– Nni piglià p’u culu!, dico Moi.
Haha 🙂
Bella Parigi e con Amici (ci son stata parecchie volte e pure abitato anch’io, quand’ero più giovane, da 20enne: bei ricordi…)!!!