
Gli atti di terrorismo sono da condannare in politica come in altri campi. Tuttavia, se un Paese è dominato da un regime dittatoriale il ricorso alla soppressione del dittatore può essere considerato moralmente necessario, legittimo perfino, poiché mirato a ripristinare le libertà individuali e collettive e il ruolo delle istituzioni democratiche. Questo senso politico può essere attribuito all’attentato a Benito Mussolini, avvenuto a Roma il 7 aprile 1926, per mano della nobildonna irlandese Violet Gibson, figlia del Lord Cancelliere d’Irlanda, con la complicità- a quanto si desume dalle fonti consultate- dell’on. Giovanni Antonio Colonna, duca di Cesarò e barone di Ioppolo Giancaxio (Sicilia), leader del partito della Democrazia Sociale e più volte ministro, protagonista di primo piano (con Giovanni Amendola, Alcide De Gasperi, Antonio Gramsci, ecc.) della secessione parlamentare dell’Aventino. Un episodio clamoroso e foriero di enormi conseguenze politiche che per un lungo periodo è stato poco indagato sul piano storiografico e mediatico e che solo negli ultimi tempi è divenuto oggetto di una certa attenzione da parte di specialisti di settore, di organi di stampa e perfino di produzioni cinematografiche. E dire che fra i quattro attentati verificatesi fra la fine del 1925 e il 1926 questo della Gibson fu quello che andò più vicino all’obiettivo: se fosse andato a segno avrebbe mutato il corso della storia italiana e forse anche europea. Tecnicamente l’attentato può dirsi riuscito poiché il colpo di rivoltella della Gibson attinse al naso Mussolini il quale si salvò soltanto grazie a un provvido spostamento del capo verso l’alto indotto dallo scatto provocato dal saluto romano e all’inceppamento della pistola (per mancata esplosione delle polveri) che non fece partire il secondo colpo. Com’è noto, nei primi interrogatori di polizia la Gibson, dopo alcune dichiarazioni incongrue, confuse, accusò di complicità (se non come mandante) l’on. Giovanni Antonio Colonna, duca di Cesarò che, dopo il barbaro assassinio di Giacomo Matteotti, era divenuto acerrimo nemico di Mussolini di cui era stato alleato di governo e ministro delle Poste. Il Colonna ammise di avere conosciuto all’estero (nel 1912) la Gibson, ma negò di averla rivista successivamente e pertanto era da escludere ogni suo coinvolgimento nell’attentato. Se tale chiamata in correità fosse stata convalidata l’intera vicenda avrebbe preso una piega ben diversa, e non solo per gli attori chiamati in causa. Sarebbe stata rubricata non come attentato di una straniera, affetta da disturbi psichici, ma come complotto politico proveniente da ambienti dichiaratamente antifascisti i quali, avendo registrato il sostanziale fallimento dell’Aventino, probabilmente ritenevano che solo la soppressione fisica del Duce potesse riaprire il gioco politico democratico in Italia e indurre il re a individuare una diversa soluzione governativa. Durante gli interrogatori, la Gibson lasciò ad intendere che compì l’attentato, oltre che per le sue personali convinzioni antifasciste, anche per fare cosa gradita al duca di Cesarò del quale era innamorata. Qualcuno giunse persino a fantasticare che l’attentatrice fosse stata ispirata e teleguidata dal Cesarò e dai quattro membri della “catena magica” (Mauri, 2005). Tanti furono i silenzi, le congetture, i depistaggi sulla vicenda. Tuttavia, andando alla sostanza delle cose, il dilemma, il nodo principale da sciogliere non sembra quello di sapere se Violet fosse pazza o meno (tutte le testimonianze dicono di no), ma se agì in solitudine o con la complicità del duca di Cesarò. Nel secondo caso, la complicità con un leader di partito di un certo rilievo qualificava in senso politico la vicenda, come subodorava il commissario di PS Epifanio Pennetta il quale- fino all’ultimo- intravide i contorni di un complotto politico. Inoltre, l’accertamento di un “com-plotto” avrebbe provocato un serio dibattito all’interno del movimento fascista e non solo, moti di protesta nel Paese, con ripercussioni serie sul piano interno e internazionale, in particolare nei rapporti con il governo di sua Maestà britannica che intratteneva buone relazioni con quello italiano e che annoverava fra i suoi sudditi quella attentatrice di rango così elevato. In ogni caso, qualunque ne fossero stati gli esiti, la figura, la popolarità di Mussolini ne sarebbe uscita scossa, indebolita. Invece ne uscirà rafforzata. Addirittura si gridò al “miracolo”. In virtù di tale fama, il papa Pio XI lo definirà “uomo della Provvidenza”. Una curiosità. Fra i tanti messaggi di solidarietà figura anche una lettera appassionata di una giovanissima Clara Petacci: “Duce, mio amatissimo Duce, nostra vita, nostra speranza, nostra gloria…Perché non ho potuto strangolare quella donna assassina che ha ferito il nostro essere Divino? Duce vi offro la mia vita…”. La corrispondenza avrà un clamoroso seguito visto che la Petacci, appena ventenne, diverrà l’amante preferita di Mussolini; il loro rapporto andrà avanti nel tempo, fino al tragico epilogo portato in esposizione a Piazzale Loreto. Chiusa questa parentesi sentimentale, riprendiamo il filo del ragionamento con le parole, acute e realistiche, di Rossella Pace (al convegno “Mussolini nel mirino” dic. 2023) secondo la quale “è da abrogare tutta la prosa della follia (della Gibson ndr) perché è una donna che agisce in modo mirato, sa benissimo che eliminando il Duce il fascismo sarebbe caduto…”.
Questo é il punto politico nodale dell’intera vicenda! Proprio per evitare tali conseguenze il regime, valutando i pro e i contro, decise di degradare l’attentato all’azione di una folle, di un’invasata venuta dall’estero e in tal senso brigherà per accreditare detta versione suffragata dalle necessarie certificazioni peritali. In realtà, il fascismo fece una scelta intelligente che, per altro, conveniva a tutti gli altri attori chiamati in causa. Stranamente, vittima e carnefici avevano lo stesso interesse: escludere il complotto politico e degradare il fatto a un atto di mera follia. Conveniva all’attentatrice e alla sua influente famiglia che così poteva sperare in un “recupero” della congiunta senza gravi conseguenze giudiziarie; al governo inglese che intendeva mantenere con Mussolini buone relazioni politiche; a Casa Savoia che confermò la fiducia al Duce; allo stesso on. Giovanni Antonio Colonna il quale, ovviamente, negò ogni coinvolgimento giacché in caso contrario ne avrebbe subito pesanti conseguenze giudiziarie e d’altro tipo. Ovviamente, siamo nel campo delle supposizioni, ma la logica politica giustifica ampiamente tali “convenienze” così come la condotta dello stesso partito fascista. Tuttavia, nonostante la proclamata “follia” di Violet, il regime mantenne i suoi sospetti sul duca, ritenendolo un elemento pericoloso e pertanto da sottoporre a una rigorosa sorveglianza che si protrasse fino alla metà degli anni ’30