Dopo l’articolo pubblicato dal “Dubbio” che chiede la desecretazione dell’audizione dell’allora maresciallo Canale – resa nel ’97 in commissione Antimafia – ad avvalorare nuovamente la teoria mafia/appalti come unico movente delle stragi del ’92 un ulteriore articolo dello stesso quotidiano che solleva il dubbio che qualcuno possa avere paura di questa commissione Antimafia.
Premesso che da queste parti non si è mai stati “trattativisti” (ovvero fautori della trattativa mafia/Stato come causa dell’accelerazione delle stragi) ma neppure “mafioappaltisti” (sostenitori che fu solo il dossier mafia/appalti la ragione dell’uccisione del giudice Paolo Borsellino), quello che accadde con la deposizione di Canale ben lo spiegò a suo tempo il senatore Pietro Milio, avvocato di Bruno Contrada e del generale Mario Mori.
Una voce insospettabile per chi oggi perora la causa mafia/appalti, l’indagine condotta proprio dal generale Mario Mori, il cui difensore è stato di recente l’avvocato Basilio Milio, figlio del senatore/avvocato.
A ricordare l’intervista rilasciata dall’avvocato Pietro Milio a Radio Radicale, l’utente Isabella Silvestri – attenta osservatrice – che commentando l’articolo su Facebook ne ha postato il link.
Dichiarazioni al vetriolo da parte di un autorevole giurista nei confronti dell’allora commissione Antimafia, con le quali non soltanto stigmatizzava l’operato della commissione stessa che aveva escusso un indagato, ma riteneva inutilizzabile quanto affermato da Canale, e che se rapportate alle recenti audizioni solleverebbero seri dubbi sull’opportunità di audire l’ex pm Gioacchino Natoli, indagato per aver favorito la mafia.
Un’intervista, quella postata dalla Silvestri, che ha ingenerato reazioni scomposte tra i “mafioappaltisti” che non ne hanno gradito la pubblicazione.
A chi fa paura l’intervista all’avvocato Pietro Milio?
A chi oggi vedrebbe messo in discussione l’operato di questa commissione Antimafia rispetto la validità delle dichiarazioni di Canale; rispetto l’insussistenza delle accuse alla Procura di Palermo che non avrebbe aperto il plico inviato dalla commissione Antimafia, o perché metterebbe in discussione l’escussione dell’ex pm Gioacchino Natoli, attuale cavallo di battaglia dei “mafioappaltisti”?
Senza taglia/cuci non si possono creare gli autentici capolavori che soltanto chi è fazioso sa realizzare.
La stessa cosa che spesso accade quando vengono citati i giudici Falcone e Borsellino.
Spesso vengono citate le parole della testimonianza resa dalla vedova Agnese Piraino a cui il marito disse: “mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia. La mafia non si vendica, forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri”.
Una testimonianza spesso ricordata dai “mafioappaltisti”, ‘epurata’ dalla parola ‘colleghi’ (quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi) dai “trattativisti”.
Due fazioni in lotta tra loro che utilizzano le parole dei due giudici riportandone alcune e omettendone altre secondo l’utilità che le stesse possono avere per avvalorare le proprie teorie.
Parole che talvolta sono Vangelo, che talaltra – per gli stessi soggetti che ne riportano parte come fossero Vangelo – sono pronunciate da persone che soffrirebbero del morbo di Alzheimer, come disse il generale Antonio Subranni della vedova di Paolo Borsellino.
Aveva ragione Roberto Gervaso nel dire: “La verità: se ce ne fosse una sola, l’uomo l’avrebbe già trovata”.
Ognuno cerca e trova la verità che più gli fa comodo.
Un punto cardine dei “mafioappaltisti” è l’esclusione di mandanti (o mani) esterni nelle stragi del ’92.
Ciò che non bisogna assolutamente ipotizzare, è l’intervento da parte di apparati dello Stato infedeli.
Che Borsellino invece temesse di essere spiato da uomini dei servizi, lo afferma la vedova del giudice il 27 gennaio 2010 (scarica il documento), che sentita a sommarie informazioni dichiara:
“Ricordo, invece, che mio marito mi disse testualmente che ‘c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato’. Ciò mi disse intorno alla metà di giugno del 1992. In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la ‘mafia in diretta’, parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano. In quello stesso periodo chiudeva sempre le serrande della stanza da letto di questa casa, temendo di essere visto da Castello Utveggio. Mi diceva: ‘ci possono vedere a casa’, tornando a ribadire “mio marito mi disse testualmente che ‘c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato’. Ciò mi disse intorno alla metà di giugno del 1992. In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la ‘mafia in diretta’, parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano. In quello stesso periodo chiudeva sempre le serrande della stanza da letto di questa casa, temendo di essere visto da Castello Utveggio. Mi diceva: ‘ci possono vedere a casa’ ”.
Un alone di mistero mai chiarito su Castel Utveggio, postazione occulta del Sisde secondo Gioacchino Genchi – che ha sempre lamentato che bloccarono le sue indagini sui servizi e Castel Utveggio – ipotizzando che proprio da lì, o dalle sue vicinanze, fosse stato dato l’input a far esplodere l’auto provocando la strage di via D’Amelio.
Un’ipotesi giudicata “friabile” dalla Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta che ne smentì la teoria investigativa: “Non abbiamo trovato elementi che possano confermare la presenza di mafiosi e di uomini dei servizi in quel sito il giorno della strage. Ciò non significa che non vi siano state nella decisione di uccidere Paolo Borsellino convergenze tra Cosa nostra e soggetti esterni”.
L’ipotesi di Genchi si basava anche sull’analisi del tabulato telefonico del boss Gaetano Scotto – indicato come trait d’union fra i vertici di Cosa nostra e servizi segreti, di recente condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’agente di polizia Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio – che nel febbraio 1992 aveva chiamato un numero corrispondente ad un ufficio presente all’Utveggio.
Genchi, come dichiarato nel corso di un’intervista, si disse contrario al fermo di Scotto, poiché seguendone le mosse avrebbe potuto portare ai servizi e ai soggetti che gravitavano intorno alla zona del Monte Pellegrino e di via D’Amelio.
“Avevamo le prove, quindi volevamo vedere questo soggetto libero dove ci portava; e quando sento dire che bisognava fermarlo, io mi metto di traverso. Dico: ‘Ma come?! Arrestiamo il nostro cavallo di Troia?! Quello che ci deve portare a destinazione?’. L’ordine che arrivò a La Barbera da Roma era questo: bisognava chiudere, bisognava formattare col dictum del Maxiprocesso che aveva stabilito la Cupola; per cui tutto ciò che succede è colpa della mafia. ‘io divento così Questore e tu – mi dice La Barbera – hai una promozione per merito speciale e una carriera assicurata in Polizia’. A quel punto io dopo una lunga discussione che si è protratta fino alle 5 del mattino, in cui dissi a La Barbera tutto quello che pensavo (lui si mise pure a piangere) andai via, sbattendo la porta. Da quel momento non lo vidi più, e tornai al reparto mobile… e lì finì la mia carriera in Polizia. Gli altri la carriera l’hanno fatta con i depistaggi delle stragi”.
Le dichiarazioni della vedova Borsellino, le stesse parole di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, utilizzate per confezionare parziali verità, omettendo o interpretando quanto realmente riferito.
Tutti complottisti coloro i quali ritengono che dietro le stragi non vi fosse soltanto “Cosa nostra”?
E i timori di Paolo Borsellino di essere spiato da uomini dei servizi, artatamente taciute dai “mafioappaltisti”?
Quale verità si cerca, quella che nel nome di Borsellino ognuna delle parti in causa usa per portare acqua al proprio mulino?
Gian J. Morici