Intervista e fotografie di Gian Joseph Morici
L’incontro con Mario Trapani, artista poliedrico, cattura l’attenzione dell’interlocutore portandolo in un mondo nel quale musica e colori si fondono tra loro nel corso di un viaggio emozionale.
Tra un caffè, rigorosamente amaro, e una sigaretta, ci avviamo in un percorso a ritroso nel tempo per scoprire l’artista e l’uomo che finisce sempre con il sorprendere con continui guizzi tra oggi e ieri, tra il musicista e il pittore.
Maestro, la definiscono un artista poliedrico… Da cosa nasce questa definizione?
- Non è solo la pittura la mia la mia passione. Io nasco come musicista. Sono due arti alle quali sono molto legato, poiché sin da bambino ho sempre amato la musica, ereditata da mia madre, e la pittura. Una passione che ho avuto per quella che poteva essere la pittura di un bambino ma che è stato un crescendo continuo.
Come si avvicina al mondo della pittura?
- Al mondo della pittura mi avvicino seguendo gli studi accademici. Per la musica mi ritrovai in Germania, nella città di Heidelberg, con il mio gruppo musicale, dopo che avevo già preso parte a San Remo ’79. Ero stato uno dei primi musicisti che ad Agrigento negli anni Settanta aveva costituito quei gruppi seguendo la corrente rock americana e inglese. Amando il blues mi ero affacciato naturalmente alla musica rock, che tutt’ora amo moltissimo. Dovendo imparare la lingua tedesca mi iscrissi all’accademia superiore, completando gli studi che avevo già conseguito in Italia al liceo artistico. Imparai così la lingua, mentre nel frattempo perfezionavo l’arte pittorica.
Lei non nasce come pittore astrattista… Come passa dall’arte figurativa all’astratto?
- Voglio fare una breve premessa. Chi non ha una base accademica… tradizionale… non può di punto in bianco passare all’astratto. La pittura deve avere una costruzione ben solida. Quindi non trovo nessuna attinenza con l’astrattismo da chi non viene dalla pittura accademica. L’astrattismo infatti nasce da una scomposizione figurativa. Mentre in musica chi conosce uno strumento alla perfezione si può permettere nei tempi e negli accordi di improvvisare tutto ciò che vuole, rimanendo negli stessi, così come avviene nel Free jazz, nella pittura è diverso. Fin dagli inizi non ho mai utilizzato la matita poiché la mia pittura è spontanea. Prescindendo dalla regolarità della linea ciò che traccio è il messaggio delle mie percezioni. Nell’astratto ognuno vede secondo il proprio stato d’animo. Nella pittura astratta noi vediamo ciò che sentiamo dentro. Anche qui faccio ricorso a un esempio con la musica. Se io oggi ascolto un brano musicale, secondo il mio stato d’animo del momento può mettermi allegria. Se invece la stessa canzone la ascolto in un altro momento, magari può mettermi tristezza. Non è la canzone che cambia, sono io che cambio. Chi vuole approcciarsi alla pittura astratta, o concettuale, non potrà mai farlo se non ha idealmente la capacità mentale di potere ‘smontare’ una figura anatomica perfetta togliendo fin quando realizzerà con pochi segni l’opera pittorica. E’ come la scultura in un blocco di marmo, che Michelangelo diceva: ‘Io l’ho tirata fuori ma la figura era dentro’.
Le sue tele non sono mai finite…
- Mi rifaccio all’arte Zen, che è l’arte non finita… perché a mio modo di vedere l’arte concettuale, voglio che sia il fruitore che guardando la mia opera la finisca, lasciandolo a chiedersi se la stessa non è finita o se l’ho lasciata così. Per me è finita, ma la lascio con quello spazio perché nella chiave di lettura di ogni spettatore ci sia qualcosa che lui stesso può aggiungere chiedendosi chissà cosa avrebbe messo l’artista.
In che misura è stato influenzato da correnti pittoriche e grandi Maestri?
- Modigliani. Ma quella sua non è stata una grande influenza nella pittura in sé, bensì del segno che lui lasciava, perché la genialità del Modigliani era già sotto gli occhi dei suoi contemporanei. Picasso intuì subito il pensiero di Modigliani. Modigliani è famoso per le donne raffigurate senza la pupilla e con il collo lungo. Per me la sua genialità va oltre l’immaginario. Si accorge che la donna è un essere spirituale. Infatti il dipingerla con il collo lungo trasmette un messaggio di Gotico, di sacro. A suo modo sacralizza la donna con questo concetto di pittura di innalzamento verso il cielo, non si ferma a romanico statico architettonico ma indirettamente o volutamente tira fuori l’architettura gotica rappresentata attraverso la donna. Avendo conosciuto la sua compagna la ritraeva senza le pupille e alla domanda perché mi fai senza le pupille lui rispose ‘ti dipingerò gli occhi al momento in cui ti conoscerò bene dentro l’anima’. Questo rimase memorabile, perché si dice che gli occhi sono lo specchio dell’anima.
Quali materiali adopera per le sue opere?
- Quella della scelta dei materiali è un’esigenza mia personale. Una continua ricerca di nuovi materiali. Posso usare la carta, posso usare il bitume, uso il catrame, uso i colori ma sono sempre alla ricerca di nuovi materiali, tanto che ho iniziato a lavorare il fango del Mar Morto, che durante quest’ultimo periodo non arriva a causa delle situazioni belliche che ci sono in atto. Il fango del Mar Morto è uno di quei colori che varia dal bagnato all’asciutto… è cangiante e in determinate situazioni offre delle trasparenze particolari che insieme a materiali come il catrame solido o il catrame steso soddisfa le mie esigenze artistiche… La ricerca dei materiali non finisce mai… È una scuola che non ha mai fine, uno studio continuo a vita nel quale non si arriva mai….
Guardando qualche sua tela viene in mente il Burri…
- Ogni artista che è sempre alla ricerca di qualcosa, o di se stesso soprattutto, volente o nolente si accosta, anche inconsciamente, agli artisti che sono nella storia. Di conseguenza è un privilegio cercare di identificarsi tecnicamente a un artista che è molto presente nell’artista attuale, quindi in questo caso in me. Ho diverse opere che sono molto attinenti a quello che è il Burri nelle sue composizioni, ma non uso il rosso perché il mio periodo del rosso è finito una ventina di anni fa, mentre ora lavoro con massimo due o tre colori. Rivedersi in qualche artista del passato non significa andare a scopiazzare l’altro. Quando l’artista trova quella linea, su quella comincia a lavorarci sopra e comincia a diventare la pittura di un processo dinamico di ricerca. Io apprezzo moltissimo anche Antoni Tàpies, un artista spagnolo che lavora pure con le sabbie. Ciò non toglie il fatto che io parto dalle scomposizioni di de Kooning, perché quello è il caposcuola; poi inconsciamente chi non ha avuto l’influsso picassiano? Tutti quei pittori che si vedono in Dalì si vedono in Dalì, ma non significa fare ciò che ha fatto Salvador Dalì. Perseguono quella linea per poi perfezionarsi, ma questo è possibile solo quando alle spalle si ha la base accademica. Senza quella è improvvisazione.
Le sue opere fanno parte di importanti collezioni private e pubbliche, apprezzate anche all’estero…
- In Germania c’era la signora Martha Weber , direttrice del Kurpfalzische Museum, che curava le mie mostre. Attraverso lei conobbi l’architetto, Herman Bunse, il quale era un pastore protestante. La domenica diceva la messa dentro il carcere femminile di Heidelberg. Un giorno, invitandomi a un sopralluogo nel carcere, mi manifestò l’esigenza di realizzare nella parete del corridoio qualcosa che rappresentasse dei passi biblici. Insieme abbiamo avuto l’idea di fare due grandi tele di juta, in realtà una sola con due facciate dipinte da una parte e dall’altra, con delle ventose al tetto e al pavimento, in modo che si potesse girare secondo quello che si voleva far vedere. Ricordo che mi diede due temi. Uno la redenzione, l’altro la resurrezione. Ovviamente non era un lavoro astratto ma un lavoro rappresentativo. Ho conosciuto un mondo triste, con gente condannata a scontare la pena per i reati commessi. Un mondo che non conoscevo ma che mi ha arricchito molto. Io avevo bisogno di comunicare con le recluse, le quali invece si negavano molto. Ero un estraneo con il quale non parlavano. Nonostante ciò ho voluto insistere. Queste sono le esperienze che toccano nel più profondo l’interiorità personale. Ogni domenica mi recavo insieme all’architetto per cercare di entrare nelle simpatie di queste donne recluse. Un giorno mi portai una radio con le cassette e iniziai a far sentire la musica. Nella parete avevamo messo la prima juta che stavo iniziando a dipingere dinanzi a loro. Mentre dipingevo, girandomi mi accorgevo che qualcuna di loro guardava, ma non appena io mi giravo si girava nuovamente dall’altra parte. Misi la cassetta dei Pink Floyd…che amo moltissimo. Quando finii di dipingere firmai la tela. Loro pensavano che avessi finito e non sarei tornato più. Invece, la domenica successiva, mi presentai con l’altro rotolo. Quando misi la juta accesi la radio e inserii la cassetta dei Pink Floyd. Ho messo in ordine i colori e chiesto a chi piacesse il nero. Ci fu una ragazza che disse ‘a me’. ‘Prego, vieni, questa tela vorrei realizzarla con te’. Quella ragazza si tirò dietro le altre. Ero riuscito a coinvolgerle. Con l’uso dei colori ero diventato il pilota di quello che dovevano fare. Intervenivo poi alla fine. Il cielo, limpido con una sola nuvola, lo dipinsi da solo. La nuvola non era altro che la forma di una chitarra. La chitarra di David Gilmour che si sentiva mentre si stava dipingendo. Un quadro… una grande opera surrealista ma visibile a chiunque perché era molto chiaro. Di surrealismo c’era soltanto quella nuvola a forma di chitarra, che avevo voluto fare mettendo quel lato musicale che si ascoltava.
Oltre collezioni private e gallerie che hanno le sue opere, vuole ricordare qualche luogo in particolare dove sono esposte sue opere?
- Sì, tra gli altri posti dove sono esposte le mie tele mi piace anche ricordare il Kurpfalzische Museum, del quale era direttrice la signora Martha Weber,che ne possiede due, e il museo Fighille di Citerna (PG), antica sede di dogana papale, dove sono presente..
Oltre quadri astratti ha realizzato tele con figure stilizzate molto particolari… Lavori che emozionano ma trasmettono un messaggio doloroso
- La nascita di queste opere avviene ad Auschwitz. Ad Auschwitz si entra che si è una persona e ne esce un’altra. Gli occhi catturano delle immagini che secondo la sensibilità di ognuno di noi restano fortemente impresse dentro. L’uscire da lì, ritrovandomi con una serie di immagini catturate dal guardare, mi portò alla realizzazione di una collezione di tele che avrei voluto proporre progettando qualcosa. Un progetto che non andò in porto, poiché le emozioni provate le trasmisi sulle tele con un linguaggio crudo, reale, e a volte anche irreale, che avevo rappresentato e lavorato con violenza. Era come il voler far rivivere quei momenti che non devono più ripetersi. Quei personaggi senza più dignità, senza più identità, senza più niente, chinati con lo sguardo a terra con qualcuno davanti che gli gridava con i denti di fuori… non c’è violenza più rappresentativa di un uomo di quello che grida in faccia con i denti di fuori. Quando realizzai queste opere mi venne in mente la pittura di Goya. Ho sempre sostenuto, anche prima di questo fatto, che non c’è astrattismo senza la figurazione di Francisco Goya.
Cosa ne è stato di queste opere?
- Queste tele sono state distrutte perché il progetto che avevo in mente di fare non fu accolto. Un fatto che mi ha lasciato perplesso. Questo mi è successo pure quando volevo farla alla Scala Reale di Agrigento, mettendo a disposizione sessantaquattro tele riguardo il giorno della memoria per la fruizione degli istituti, dal giorno della memoria, il 27 gennaio, fino alla chiusura dell’anno scolastico. Anche questo mi è stato negato. Non so i motivi e non voglio neanche andare a cercarli.
Lei ha ricevuto premi all’estero…
- Sì, ho ricevuto due premi importanti. Uno dall’ordine dei giornalisti tedeschi. Avevo fatto un concerto e in quell’occasione tre giornalisti mi premiarono ognuno con una medaglia d’oro che si riferiva alla coniazione della caduta del Muro di Berlino. Un altro premio ad una estemporanea di pittura che era anche un’esposizione collettiva… Il primo premio. L’ho avuto dalla signora Kohl… la moglie del cancelliere tedesco. Ho anche partecipato a mostre con altri artisti conosciuti in tutto il mondo, come nel caso di della rassegna internazionale al Museo Mediolanum di Padova, promossa dal fondatore del neutralismo internazionale. Sono inoltre stato invitato ad Anagni dal professore Citro, curatore delle mostre, tre anni fa per i 700 anni di Dante Alighieri. Con il professore Citro volevamo organizzare ad Agrigento una biennale o annuale – che poi non sappiamo per quali motivi non si è fatta – come un evento che rimanesse nel tempo, perché Agrigento con i suoi tesori non ha niente di meno di altre città come Venezia dove si fa la Biennale, come Milano dove si fa la triennale e altre città dove si tengono di questi eventi. Ad Agrigento non è stato possibile e abbiamo organizzato, con il consenso del sindaco di Palma Montechiaro, dottore Castellino, andando a riempire le sale del palazzo ducale.
Come definirebbe la sua pittura?
- Non potrei dare una definizione della mia pittura in quanto dipingo solo ed esclusivamente i miei stati d’animo. È una pittura concettuale…ogni volta che dipingo è come se dovessi andare a ritroso in una sorta di psicanalisi di me stesso, cercando di tornare ai ricordi d’infanzia. Questo mi favorisce quando alla fine dell’opera lascio quei segni che sono illeggibili, come quando il bambino non sa scrivere e comunica attraverso i segni.
Abbiamo parlato della sua vita all’estero, di quello che ha fatto in altre regioni d’Italia, ma non abbiamo quasi parlato di Agrigento, la città nella quale vive
- Avendo vissuto e toccato con mano la realtà di artisti e non, di altre nazioni, mi fa venire in mente che tutto ciò che noi sentiamo dire qui è tutto il contrario dei nostri riscontri. Vorrei vedere questa città fatta da persone e amministratori, senza nulla togliere a niente e a nessuno, ma aggiungendo qualche cosa, soprattutto, che potessero rendersi conto che questa è una città che ha un motore potenziale attraverso l’arte e gli artisti di qualsiasi genere…che potrebbe tornare veramente agli splendori di una volta, quando veniva indicata come la più bella città dei mortali. Perché non renderla tale attraverso quello che è il bello, anziché essere distruttivi?
Con un’ultima sigaretta concludiamo così questo incontro, certi che torneremo a scrivere di questo artista e dei suoi programmi per il futuro.
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Mario Trapani nasce a Caltabellotta (AG) nel 1955, agrigentino di adozione, poiché si trasferisce nella città dei templi all’età di 4 anni.
Dopo un lungo periodo trascorso all’estero, oggi vive ad Agrigento, dove lavora nel suo atelier, sito al n° 7 di via Garibaldi.
Ha partecipato a diverse mostre personali e collettive in varie città italiane ed estere riscuotendo consensi di pubblico e di giurie giudicanti.
Tra le tante ricordiamo la partecipazione artistica ad un concorso telematico dove ha ricevuto il primo premio Leonardo e il premio Visconti votato da 150 paesi aderenti del mondo.