Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani si propone di commemorare Abed Manyami, il brigadiere dei Carabinieri Antonino Marino, Hiso Telaray, il maresciallo dell’arma dei Carabinieri Vito Jevolella mediante le parole degli studenti studente della classe IV sez. C del Liceo scientifico “Filolao” di Crotone.
“Il 9 Settembre 1988, Abed Manyami si trovava presso uno sfasciacarrozze di Gioia Tauro con l’intento di acquistare un motore usato per riparare la sua macchina e partire per il suo viaggio di nozze in Marocco. Quel giorno, mentre aspettava la risposta dal proprietario Girolamo Priolo, tre uomini armati di lupara spararono contro l’officina con l’intento di uccidere il proprietario. Nell’attentato, il trentenne Manyami, che si trovava nel posto sbagliato ed al momento sbagliato venne colpito e perse la vita. Purtroppo a causa di una ingiustizia commessa da criminali ancora ignoti alla polizia italiana, perse la vita un uomo innocente. Molte volte il mondo è crudele ed ingiusto per il malaffare della criminalità organizzata che ha infranto i sogni di un giovane ragazzo, Abed, con pochi colpi di lupara. Ricordare la sua giovane vita è essenziale, perché il suo sacrificio involontario serve ad esortare la popolazione a combattere contro la criminalità e contro la mafia, ma soprattutto contro le ingiustizie causate da esse. Ricordare quest’uomo significa sollecitare tutti noi a rendere il mondo un posto migliore in cui nessuno debba morire come Abed a causa della criminalità organizzata che con pochi colpi di pistola spazza via le speranze, i sogni, le aspettative, la vita.” (Gabriele Scilimpa)
“Il 9 settembre 1990, Antonino Marino, brigadiere dei Carabinieri, venne ucciso in un agguato a Bovalino Superiore, in provincia di Reggio Calabria. Aveva appena 33 anni e con lui furono feriti anche la moglie Rosetta, incinta, e il figlio Francesco, di due anni. Antonino aveva dedicato la sua vita a contrastare la mafia e le sue attività criminali, pagando il prezzo più alto per il suo impegno. La sua storia è un esempio di dedizione e coraggio, ma rappresenta anche un appello a tutti noi per unirci nella lotta contro ogni forma di criminalità organizzata. Antonino Marino si era arruolato nell’Arma dei Carabinieri nel 1975, dedicando la sua carriera alla lotta contro la ‘ndrangheta, una delle più potenti organizzazioni criminali d’Italia. A Platì dove aveva comandato per anni la stazione dei Carabinieri, aveva svolto indagini su traffici illeciti e sequestri di persona, contribuendo alla liberazione di ostaggi come Cesare Casella e all’arresto di vari esponenti mafiosi. Questo impegno non rimase senza conseguenze: pochi mesi prima della sua morte, Marino era scampato a un primo attentato, ma il 9 settembre 1990 i sicari della mafia riuscirono nel loro intento. Dieci proiettili calibro 9 lo colpirono, causando ferite mortali al torace e allo stomaco. Nonostante i disperati tentativi dei medici di salvargli la vita, Antonino Marino morì dopo tredici ore di agonia. Il sacrificio di Antonino Marino dimostra come la mafia non sia un problema del passato o limitato a una sola parte del Paese. La mafia è una realtà concreta e pericolosa, che minaccia il nostro vivere quotidiano e i nostri diritti fondamentali. È un fenomeno che si alimenta del silenzio, della paura, della complicità, e per questo la lotta contro la mafia non può essere solo demandata alle forze dell’ordine e alla magistratura, ma deve coinvolgere l’intera società. Ognuno di noi ha il compito di non restare in silenzio, di non voltarsi dall’altra parte, e di impegnarsi attivamente contro l’illegalità e la corruzione.” (Giovanni Serrao)
“Vito Jevolella fu un maresciallo dell’arma dei Carabinieri, nacque a Benevento il 4 dicembre 1929 e dopo il suo arruolamento nelle forze dell’ordine venne assegnato in forza nella città di Palermo, luogo della sua morte. É il 10 settembre 1981, alle 20:30 circa, quando il maresciallo si trovava in macchina insieme alla moglie Iolanda, improvvisamente venne colpito da quattro killer armati di pistole e fucili. Fu un uomo che aveva molto a cuore il suo lavoro tanto da diventare indispensabile per la sua capacità di compiere indagini molto accurate relative alle organizzazioni criminali. Il motivo della sua morte fu chiaro immediatamente, l’assassinio del maresciallo rientra in un piano mafioso che mirava all’espansione di interessi criminali ed é proprio per il suo valore che il “segugio del boss”, così era nominato, doveva essere eliminato. Il maresciallo nel corso della sua carriera ricevette molte lettere di apprezzamento da parte del comandante generale dell’arma. Vito jevovella mostrò fin da subito coraggio e molta determinazione andando contro la mafia, la sua morte ha lasciato un vuoto incolmabile nella sua famiglia e un profondo dolore, ma anche la società ha dovuto fare a meno di un uomo onesto, coraggioso, ligio al dovere, incorruttibile, un uomo dell’Arma capace di far paura alla mafia, capace di limitare lo strapotere della criminalità organizzata. La morte del maresciallo Vito Jevovella è il simbolo della debolezza mafiosa, la criminalità organizzata sa bene che alcuni uomini come il maresciallo Jevovella sono uomini che amano ogni sfaccettatura della legalità, amano la giustizia, amano lo Stato e non consentiranno mai di macchiare con i loro sporchi affari la costituzionalità dello Stato, pertanto non resta altro che eliminarli mostrando al mondo la sua paura.” (Dalila Anania)
“Hiso Telaray ultimo di sei figli, nato il 16 giugno del 1977 cresciuto in un piccolo paesino dell’Albania prendendosi cura della sua famiglia lavorando sodo e mandando i suoi guadagni a casa, nel 1999 decide di inseguire il sogno di studiare e diventare un geometra. Così si trasferisce in Italia e inizia a lavorare tra Cerignola e Borgo Incoronata per mettere da parte dei soldi. Giovane sempre con il sorriso e gentile con tutti, pochi mesi dopo il suo arrivo ancora ignaro delle brusche regole prevalenti nei campi pugliesi, si mise in grave pericolo per avere opposto un diniego ai caporali e per il rifiuto di cedere parte dei suoi guadagni. Hiso rimase fedele alla sua posizione, e, purtroppo dopo 3 giorni di tormento, l’8 settembre a soli 22 anni, morì poiché ferito a morte dai caporali. Giorni dopo, la notizia arrivò anche alla famiglia e il 25 o 26 settembre (data incerta) venne sepolto nella propria terra in Albania. A distanza di anni il suo nome diventò molto importante poiché nel 2004 venne scelto come simbolo del primo vino rosso e rosato, prodotto dalle terre confiscate alla mafia nel brindisino dalla Cooperativa Terre di Puglia, Libera Terra e dal presidio di Libera di Cerignola, a cui lo stesso è intitolato.
Ancora una volta parliamo di giovani vittime innocenti della mafia, ed oggi noi tutti non possiamo far altro che ispirarci alla tenacia, alla grinta, al senso di responsabilità e all’ attaccamento alla legalità del giovane albanese che perse la vita ingiustamente dopo essersi scontrato con criminali che sfruttavano gli immigrati venuti nella nostra Terra in cerca di una vita migliore.”
(Alessandra Riillo)
Raccontare fatti e volti di persone che sono state accomunate da un sogno di onestà e libertà in Italia indipendentemente dalla loro provenienza induce a verificare quanto il crimine colpisca in modo trasversale ma anche come la fiducia nella possibilità di cambiare la realtà si fortifichi.
I giovani studenti di Crotone oggi omaggiano la speranza di quattro uomini che credevano proprio con forza in un futuro migliore.
Educhiamo i nostri ragazzi al vivere civile e ai valori della legalità.
Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani rileva come il progetto “#inostristudentiraccontanoimartiridellalegalità” stia diffondendo tra le giovani generazioni volti, storie, episodi veramente straordinari per la loro valenza educativa.