È stato sufficiente un intervento del Professor Giovanni Fiandaca pubblicato il 17 agosto su ‘Il Foglio’, dal titolo “Con Natoli e Pignatone si sta rimpiazzando il mito della Trattativa?”, a suscitare le ire di qualche giornalista che senza se e senza ma ha bacchettato il noto giurista il cui articolo ‘potrebbe essere interpretato come una mancanza di rispetto non solo nei confronti delle decine di giudici, ma anche nei confronti di quei rarissimi giornalisti che, controcorrente, hanno studiato e analizzato ogni singola carta’.
Una questione di maiestas lesse che in altri tempi sarebbe andata risolta con cappa e spada per restituire l’onore a chi aveva subito la profonda umiliazione da parte del giurista.
Per fortuna oggi i duelli si fanno sulla carta stampata – neppure troppo stampata, nemmeno tanto libera e oggetto in passato di critiche – senza spargimenti di sangue come avveniva in passato anche per un articolo di giornale.
Ma cosa ha detto il Professor Fiandaca di così lesivo dell’onore del giornalista, tanto dal mancargli di rispetto?
Rguardo l’iniziativa della Procura di Caltanissetta che ha deciso di indagare i due magistrati ormai in pensione Natoli e Pignatone, accusati di avere un trentennio fa favorito Cosa nostra insabbiando una indagine sui rapporti tra sospetti mafiosi e manager del gruppo imprenditoriale Ferruzzi, Fiandaca si è posto degli interrogativi:
- E’ legittimo in punto di diritto avviare indagini, anche complesse e di possibile lunga durata, su un’ipotesi di reato che – come in questo caso – sarebbe comunque già ampiamente prescritta?
- E’ realisticamente presumibile che, a decenni di distanza, si sia in grado di acquisire gli elementi di conoscenza e le prove necessarie per poter riscontrare l’effettiva esistenza della presunta condotta favoritrice? E rimane non ultimo da chiedersi:
- Considerate la oggettiva difficoltà e incertezza della verifica giudiziale, e tenendo conto della poca credibilità intrinseca di un’accusa così infamante, non vi è il rischio che quest’indagine nissena abbia comunque come perversa conseguenza di gettare su entrambi ombre del tutto immeritate?
Non v’è dubbio che gli interrogativi, anche per gli aspetti giuridici che rivestono, siano non soltanto più che legittimi, ma finanche obiettivi e super partes, tant’è che l’articolo non manca di evidenziare come sussista un’esigenza di fondo scaturente da fondamentali istanze di giustizia sostanziale, di ordine morale prima che giuridico, a fare maggiore chiarezza sulle cause e sulle dinamiche delle stragi ai danni di Falcone e Borsellino.
La prima domanda che noi da profani ci poniamo, è: L’attuale indagine che vede coinvolti i due magistrati, è funzionale a chiarire le cause e le dinamiche delle stragi del ’92?
E’ invece Fiandaca a entrare nel merito della legittimità di avviare indagini su un’ipotesi di reato che sarebbe comunque già ampiamente prescritta, evidenziando che non esiste nel nostro ordinamento un divieto legislative esplicito di compiere indagini su ipotesi di reato non concretamente perseguibili perché ormai prescritte, ma “sono invero intuibili gli effetti distorsivi che una pretesa di verità e giustizia a ogni costo può provocare sullo stesso processo penale. Una prima tentazione può essere quella di percepire psicologicamente qualsiasi reato come ‘imprescrittibile’, a dispetto della prescrittibilità legislativamente prevista invece per la maggior parte dei reati”.
Tralasciando le opinioni personali che riguardano i due magistrati in questione – per quanto legittime e condivisibili che possano essere o meno – rimane il punto dell’aspetto giuridico della vicenda.
“I punti problematici dell’accusa – scrive Fiandaca –, ai miei occhi di studioso di diritto penale di lungo corso, affiorano con immediata evidenza. Un primo errore metodologico incombente consiste nell’adottare il cosiddetto ‘senno di poi’: cioè nel valutare come superficiali od omissive scelte processuali di allora sulla base di conoscenze più certe giudiziariamente acquisite in epoca successiva.
Orbene, se la contestazione sul ‘senno del poi’ è quella formulata dal giornalista che scrive come dalle intercettazioni riascoltate non emergono reati che possono essere compresi solo con ‘il senno di poi’, come l’aggiustamento di un processo per un duplice omicidio, senza chiedersi se quella conversazione venne segnalata dalla PG come rilevante – e dunque se venne ascoltata o meno dal pm dell’epoca – non possiamo che rimanere esterrefatti e presumere un’assoluta ignoranza in materia da parte dell’autore dell’articolo, nonché una notevole leggerezza nello scriverne dando per scontata la responsabilità in capo all’ex magistrato che avrebbe omesso di avviare l’azione penale.
Una leggerezza non di poco conto.
“Allo stato delle conoscenze, e grazie a conoscenze ulteriori che potrebbero anche acquisirsi – scrive Fiandaca – , è realisticamente prevedibile la possibilità di pervenire a una affermazione di responsabilità certa e univoca? Si tenga presente che l’accertamento dell’elemento soggettivo del reato, specie nell’ambito di vicende complesse e scivolose come quella di cui discutiamo, equivale quasi sempre a una probatio diabolica”.
Fin qui parte degli aspetti giuridici oggetto di riflessioni e interrogativi da parte del noto giurista.
Ma non sta in questo il nocciolo della questione.
La vera ragione sta in un aspetto che riguarda l’opinione che Fiandaca ha rispetto l’indagine su mafia e appalti come movente delle stragi del ’92:
“Comunque, l’ipotesi accusatoria della procura nissena è talmente scioccante, e al tempo stesso intrigante da suscitare il rischio che il circo mediatico-giudiziario, divenuto orfano del processo-trattativa, assecondi la tentazione di rimpiazzarlo col nuovo mito alternativo dell’indagine su mafia e appalti come movente delle stragi del ’92, criminalizzando ora, al posto di presunti infedeli ufficiali del Ros, presunti infedeli pubblici ministeri. Se questo rischio si avverasse, ci troveremmo però di fronte a una pregiudiziale contrapposizione di astratte verità che, oltre a non giovare alla possibilità di fare maggiore chiarezza sulle tragiche vicende di trent’anni fa, provocherebbe un ulteriore grave vulnus alla credibilità dell’azione giudiziaria contra la mafia.
Non più la trattativa stato- mafia, ma il nuovo mito della indagine su mafia e appalti come movente delle stragi del ’92?”.
Le opinioni sono opinioni e tutte meritevoli di rispetto, a prescindere che vengano esse da soggetti più o meno autorevoli.
Mentre noi restiamo convinti che mafia-appalti possa essere stata una delle concause delle stragi, a differenza di chi la pone come unica causa e chi potrebbe volerla escludere, i fatti restano fatti e non si può che dar ragione al Professor Findaca rispetto il rischio che venga a crearsi un nuovo circo mediatico-giudiziario.
Cui prodest?
Gian J. Morici