
Non tutti sanno che Milano fu capitale del Regno dei Longobardi, del Ducato di Milano, della Repubblica Transpadana, diventando poi capitale della Repubblica Italiana ai tempi di Napoleone, che venne incoronato nel Duomo.
Ancor meno sanno, o fan finta di non sapere, che proprio Milano è stata la capitale di grandi traffici, mazzette, riciclaggio, affari sporchi e collusioni con le mafie, non solo quelle italiane.
E se di Milano sfugge il ruolo di collettore imprenditoriale-politico-mafioso, figuriamoci l’attenzione riservata all’insignificante città di Agrigento, un puntino su una cartina geografica.
Eppure, è proprio nell’agrigentino che nell’ottocento è presente la “Fratellanza” che riunisce famiglie mafiose in un’unica consorteria.
Un’organizzazione che ricorda la mafia palermitana, strutturata su base intercomunale con i capofamiglia che comandava più capi-decina.
Vi ricorda nulla?
Se dovessimo andare alla ricerca delle origini della mafia, non escludo che la primogenitura possa appartenere a questa provincia, oppure che sia nata in concomitanza con quella palermitana.
La stessa ‘punciuta’, il rito di affiliazione alla Fratellanza, pungendosi l’indice e versando le gocce di sangue su un’immagine sacra che poi veniva bruciata, è identico a quello di chi si affiliava alla mafia palermitana.
“Giuro sul mio onore di essere fedele alla fratellanza – pronunciava il nuovo affiliato – come la fratellanza è fedele con me; come si brucia questa santa e come queste poche gocce del mio sangue verso, così verserò tutto il mio sangue per la fratellanza; e come non potrà tornare questa cenere di nuovo nel proprio stato e questo sangue un’altra volta nel proprio stato, così non posso rilasciare la fratellanza”.
Ma perché approfondire la genesi della mafia, per assegnare un altro triste primato a una delle provincie più povere e assetate d’Italia?
Ma fermiamoci a un periodo più recente, quegli anni ’70 duranti i quali l’allora capomafia agrigentino Giuseppe Settecase partecipò – unico siciliano – alla famosa riunione di tutta la mafia internazionale negli Stati Uniti.
Era questo lo spessore della mafia agrigentina, quella della quale ancora oggi si stenta a parlarne.
Quella che all’epoca gestiva il traffico di stupefacenti a livello internazionale con il clan Caruana-Cuntrera, che con i Rizzuto di Montreal diede luogo alla nascita della ‘Sesta Famiglia’, una delle più importanti e temute del Nord America, da dove il clan Caruana-Cuntrera prese il controllo di diversi territori, dal Canada (Giovanni e Giuseppe Caruana), al Brasile (Giuseppe Caruana); dall’Inghilterra (Alfonso Caruana) al Venezuela (Paolo Cuntrera), fino alla patria del riciclaggio e dell’evasione (Svizzera) dove operava Pasquale Caruana.
Il solo tesoro di Pasquale Caruana, negli anni ’90 veniva stimato dalla Drug Enforcement Agency in cento milioni di dollari. Una cifra, poco inferiore a quella degli Agnelli o di Berlusconi.
Cuntrera, Caruana, Rizzuto, così come tanti altri nomi ‘altisonanti’ di ‘Cosa nostra’, erano della provincia di Agrigento.
E se qualcuno, in particolare della provincia, vi dicesse di non conoscere neppure uno dei nomi di appartenenti ai sette mandamenti e alle 42 famiglie di mafia agrigentine, senza contare le famigghiedde di Favara e i paracchi di Palma di Montechiaro, che operano autonomamente rispetto a Cosa nostra e alle consorterie stiddare, prendetelo a sberle.
È il più gran bugiardo che esista sulla faccia della terra.
Una mafia potente e inattaccabile, tanto che Buscetta, nel dare un voto alle provincie di mafia, indicherà al giudice Falcone Agrigento al secondo posto.
Ma perché parlare della mafia di questa provincia siciliana sperduta in un caldo afoso di 40° e della sua perenne crisi idrica?
Mi ha incuriosito la presenza di Antonio Di Pietro, il 5 luglio, a un incontro con Mario Mori e Giuseppe De Donno, autori del dossier mafia-appalti, oggi visto come causa unica dell’accelerazione dell’uccisione di Paolo Borsellino.
Lo stesso Mori ha legato Mafia-appalti a Mani Pulite, l’inchiesta condotta da Di Pietro che cambiò anche il quadro politico italiano.
Avranno parlato dell’imprenditore agrigentino Filippo Salamone?
Secondo Mori, Borsellino era interessato a unire le due inchieste, ma Di Pietro afferma di non aver mai letto il rapporto del Ros del 1991, fin quando non è stato sentito come teste in sede giudiziaria prima a Caltanissetta e poi a Palermo e all’antimafia dell’ARS della Regione Sicilia.
Di Pietro ha anche ripercorso la sua storia personale che lo portò alle dimissioni ricordando il dossier aperto a suo carico dall’allora pm di Brescia Fabio Salamone, fratello dell’imprenditore Filippo, uomo al vertice della spartizione mafiosa degli appalti, proprio dopo che lui aveva toccato il capitolo degli appalti mafiosi.
Sempre l’ex pm ha riferito che a Palermo c’era il tavolino, con Siino che gestiva gli appalti per conto della mafia, ma poi c’era stato un cambio di ruolo e Siino era stato defenestrato da Filippo Salamone.
Falcone, afferma Di Pietro, avrebbe seguito l’inchiesta Mani pulite perché da lui passavano, al ministero, le richieste di rogatoria, non perché Mani Pulite fosse stata messa in relazione al dossier mafia-appalti.
“Perché ogni volta che qualcuno cerca di arrivare alla zona grigia, viene fermato da quintali di tritolo o dalla delegittimazione?”.
Falcone sosteneva che bisognava seguire il denaro per trovare la mafia.
E secondo questa sua convinzione seguiva la pista del denaro fino in Svizzera, tant’è che quando subì il fallito attentato dell’Addaura dovevano essere presenti i colleghi svizzeri Carla del Ponte e Claudio Lehmann.
Di cosa si stava occupando?
Escluso che fosse interessato all’ottimo cioccolato svizzero, l’argomento riguardava il filone dell’inchiesta “Pizza connection”.
Non la pizza quella buona, che quella la mangi a Napoli, bensì ciò che riguardava il riciclaggio di denaro sporco.
E ancora una volta, ci imbattiamo nell’imprenditore Filippo Salamone e altri agrigentini che in Svizzera avevano i loro conti cifrati.
Che Borsellino sapesse di Salamone sembra dimostrarlo il fatto che suggerisce al collega Fabio Salamone di lasciare la Sicilia, vista la posizione del fratello Filippo.
Ma come faceva Borsellino a saperlo?
Sicuramente tramite l’amico Giovanni Falcone.
E i Ros?
Erano arrivati a Siino.
Tolto il trait d’union Filippo Salamone-alta mafia-politica-imprenditoria, potremmo fermare qui la storia.
Invece no, andremo avanti raccontando di come Milano fosse la Capitale, con strani personaggi legati a doppio filo con l’imprenditoria collusa siciliana, dei rapporti con il Brasile e le vicende di riciclaggio, fino ad arrivare al potente clan della Sesta Famiglia che, guarda caso, in accordo con la ‘ndrangheta mirava alla realizzazione dl ponte tra Sicilia e la Calabria, per un importo di 6,4 miliardi, frutto della gara d’appalto di lavori pubblici di valore più alto mai bandita in Italia.
Tutto quello che un certo giornalismo e una certa cordata che vorrebbe chiudere il periodo delle stragi del ’92, evitano accuratamente di raccontare.
Sapevate che il magistrato che fece arrestare i Graviano si vide tolta l’indagine quando provò a capire cosa ci facessero i Graviano a Milano?
Ma questa è un’altra storia che andremo a raccontare…
Gian J. Morici