C’è “qualcosa”, in questa storia dell’assassinio di Giulia Tramontano, che ha indignato più dell’omicidio medesimo.
Questo “qualcosa” non attiene all’atto, inumanamente inspiegabile, compiuto da un ragazzo all’apparenza normale.
No. Non è su questo scenario che i pensieri dei lettori e dei fruitori della notizia si perdono nel labirinto dell’incomprensibile.
In fondo, nessuno ancora ha mai scritto un trattato sulla “normalità” degli esseri umani e, quindi, nessuno sa veramente in cosa consista.
Viceversa, più di un autore ha elogiato la follia delle menti come strumento di creazione delle più belle realtà.
Uno per tutti, Erasmo Da Rotterdam, secondo il quale “senza il condimento della follia non può esistere piacere alcuno…”.
Le religioni, invece, hanno profuso i loro sforzi per comprendere cosa sia il male, se non altro per enuclearne (per valore di opposto) il bene.
Solo che – come affermava il filosofo Sant’Agostino – mentre il bene ha un solo modo per manifestarsi, il male ne ha mille.
Proprio in queste sue multiformi e non numerabili modalità di avvincere le azioni umane, il male sfugge ad ogni possibile definizione.
Ho provato, una volta, a dare al male un titolo provvisorio.
L’ho chiamato l’insondabile parte ombrosa di noi stessi.
Ma devo ammettere che anche quella definizione non può considerarsi esaustiva, né idonea ad una connotazione di complessiva verità.
Insomma, il male è quel “qualcosa” che neppure la religione riesce a catalogare, figuratevi come possa catalogarlo il Diritto…
La lunga e difficile premessa che avete appena finito di leggere serve a far comprendere che, di fronte a questa inafferrabile e nera entità, anche i giudici si disorientano.
Considerate che la parola “male” non è neppure formalmente annoverata nel codice penale e che solo la Giurisprudenza ne fa menzione.
E qui – proprio sull’esistenza del diabolico nell’azione umana – si è arenata, sull’assassinio della povera Giulia, la ragione del giudice.
Negando la premeditazione e la crudeltà del gesto omicidiario, quel decidente è entrato nel suo stesso labirinto e non ne è più uscito.
Perchè – è questa la cosa che non vi ho ancora detto – una delle connotazioni del male è proprio quella di ottenebrare le menti di coloro che lo incontrano.
Come nella strategia del polpo, per catturare le sue vittime e sottrarsi al pericolo di essere scoperto, il male inonda di nero ogni cosa ottenebrando la vista.
In quella nebbia oscura è facile perdersi o smarrire il senso dell’orientamento.
Nel caso che riguarda questa brutale vicenda omicidiaria, ai danni di una donna al settimo mese di gravidanza da parte del padre del nascituro, il giudice ha ritenuto non vi fosse crudeltà nell’assassino.
Il nero del male è riuscito a confondere lo sguardo del giudice, ipnotizzandolo.
Lo ha trasportato dal luogo in cui la donna sgozzata e semiarsa giaceva dentro una vasca, alla mente dell’assassino ovvero alla sua volontà criminale.
Una “pulp fiction” perfetta.
Il giudice si è annebiato nell’idea che non vi fosse crudeltà nell’uomo perché “non vi era pervicacia, tenuto conto dell’arma utilizzata e del numero di colpi inferti…”.
Non ha visto la donna sanguinante ed il suo bambino ucciso.
Ha visto il coltello nella mano del suo carnefice e ciò è stato ritenuto sufficiente ad escludere la crudeltà.
Sarebbe bastato, invece, leggere una sentenza della Suprema Corte (n. 20185 del 2017) per decidere in modo opposto.
Ma ciò non è avvenuto.
Il fumo nero del male è riuscito a ottenebrare la redazione di un atto giudiziario.
Ma non riuscirà a cancellare anche il nostro senso di Giustizia…
Lorenzo Matassa