Inutile illudersi, chi si trovasse a voler leggere il libro di un magistrato o di un ex tale, speranzoso di conoscere dalle loro parole lo stato di salute della giustizia nel nostro Paese, si rassegni, può risparmiarsi di leggere qualche centinaio di pagine (ma anche il costo del libro) che nella migliore delle ipotesi nulla aggiungono e nulla tolgono al comune sentire dell’uomo della strada.
Tolta la narrazione pruriginosa di fatti – o presunti tali – che altro non rappresentano se non l’osservazione dal buco della serratura della vita privata di uomini e donne in toga, trasformandoci in tanti voyeur pronti a spiare in maniera patologica le altrui nudità e giochi erotici, rimane il nulla.
Le centinaia di pagine scritte per narrare un’Italietta raccontata così come la potremmo ascoltare nei discorsi tra avventori al bar o dal barbiere.
Unica variante, le tesi a supporto delle gesta di questo o quel magistrato che si vanta a prescindere dall’esito delle sentenze.
Il successo editoriale del libro “Il Sistema”, di Luca Palamara (un libraccio la cui lettura dovrebbe essere sconsigliata, se non fosse che offre lo spaccato – o quantomeno una parte – di una giustizia malata, citando nomi e fatti), sembra aver dato la stura al filone letterario del magistrato scrittore/narratore del silenzio.
Compendi di teoremi che vorrebbero riportare nell’alveo della ricerca storica – non certamente in quello giudiziario – le vicende che riguardano uno dei periodi più bui della storia della Repubblica: Le stragi dei primi anni ’90.
Dal libro “La stanza numero 30” di Ilda Boccassini, e dal libro “I nemici della giustizia” di Nino Di Matteo, ci saremmo aspettati molto di più dei detti (quasi nulla, salvo poche eccezioni datate) e non detti (la quasi totalità) che ci aiutassero a capire i mali della giustizia e cosa accadde in quegli anni. Nulla di tutto ciò.
È come leggere un libro di medicina che citi i sintomi di una malattia e la presunta cura, senza mai indicare il nome scientifico (nel nostro caso nomi e cognomi) dell’agente patogeno.
La critica generica al sistema delle correnti, le raccomandazioni anche politiche per le nomine dei magistrati, stando però ben attenti a non citare nomi e fatti.
Eh sì che ne avrebbero avute da raccontare, magari sotto forma di denuncia – mai presentata nelle sedi deputate – sulle anomalie giudiziarie che segnarono quel periodo o sui rapporti tra magistrati e poteri forti (a volte forse anche criminali) di questo Paese.
Evidentemente non è facile denunciare, sia pure all’opinione pubblica, un fatto, molto più facile attribuire colpe generiche a fatti generici.
Piove? Governo ladro!
Perché non scrivere delle raccomandazioni chieste da magistrati per ottenere un incarico prestigioso a soggetti perfino al di fuori di ambienti giudiziari e politici (Caso Montante docet!)?
Perché non evidenziare come il Csm che doveva valutare l’eventuale sanzione disciplinare nei confronti del raccomandato, era quello stesso organo giudiziario che avrebbe subito – o doveva subire – l’influenza del Montante?
Perché non citare nomine per le quali si è arrivati al Consiglio di Stato perché ribaltasse una precedente sentenza del Tar (ne parla Luca Palamara nel corso delle intercettazioni che hanno gettato il Csm nella bufera)?
È divertente leggere un magistrato che critica una riforma che prevede che il Parlamento delinei ogni anno i criteri generali per stabilire le priorità delle procure della Repubblica nell’esercizio dell’azione penale (criticabilissimo, per carità), proponendo quale cura ai mali della giustizia dovuti all’enorme mole di lavoro a carico dei magistrati una seria depenalizzazione di reati come certe forme di diffamazione, e certe violazioni del codice della strada, a condotte di minore gravità legate alla normativa sugli stupefacenti, quando, nella stessa procura della quale ha fatto parte, un ragazzetto con qualche grammo di hashish viene attenzionato alla stregua di un boss di mafia, oppure una querela per diffamazione può essere presentata una mattina in cancelleria, approdare in giornata all’ufficio del procuratore, e sempre in giornata essere affidata ad un sostituto che, puntualmente, già l’indomani avrà aperto il suo bravo fascicolo.
Sarebbero queste le giuste priorità nell’esercizio dell’azione penale da parte di qualche procura?
Eh no, Consigliere Di Matteo, ci parli piuttosto del dossier mafia-appalti e di quei suoi colleghi che non godevano della stima e della fiducia dei compianti giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
In attesa di un suo nuovo libro su “I nemici della giustizia”, che comprenda nomi e fatti, vogliamo soffermarci sul “giornalismo di parte”, quello specializzato – come lei scrive – “nel frontale e quotidiano attacco denigratorio contro la magistratura”, quello di quei “giornali che, molto spesso, non si trovano neanche in edicola, ma immancabilmente riempiono le rassegne stampa televisive e persino istituzionali”.
Beh, a tal proposito, forse sarebbe bene ricordare come siamo l’unico paese al mondo nel quale un ben altro giornalismo – se così vogliamo chiamarlo, anche questo, e soprattutto questo – può essere definito la “voce ufficiosa della Procura”.
E mentre in Parlamento, così come lei afferma, sono pochi i magistrati che occupano una poltrona (soltanto tre fra magistrati ed ex magistrati, contro i nove della precedente legislatura, e i diciotto in quella ancora precedente), in compenso sembra aumenti la loro presenza nei programmi tv (autentici talk show per spettatori di bocca buona) e sulle pagine di alcuni giornali.
Avremo una nuova categoria di anchorman in toga e di giornalisti con le cordoniere, o ci fermeremo, se Dio vuole, alla figura del nuovo filone letterario del magistrato scrittore/narratore?
Gian J. Morici