A leggere oggi alcuni titoli di giornali viene la nausea e ti chiedi come sia possibile scrivere panzane inverosimili, che se non venisse da piangere susciterebbero soltanto ilarità.
Com’era prevedibile la sentenza di assoluzione di Mori e De Donno per l’inesistente Trattativa Stato-mafia, ha dato la stura ai tanti padrini che per troppi anni si sono dati da fare nel pubblicare le veline delle procure, e che oggi si giocano l’ultima carta del “la trattativa c’è stata ma non è reato”.
Del resto è veramente difficile per chi ha costruito visibilità e carriere dover ammettere di aver narrato soltanto compendi di castronerie fondati su ipotesi e sulle solite tesi complottistiche che tanto piacciono a noi italiani.
Peccato che in tutto questo si faccia a pezzi la verità, non si renda giustizia alle vittime e si distrugga la vita di persone innocenti.
Inutile dire che chiunque abbia anche solo letto la copertina di un codice penale, può solo ridere – se non piangere – di simili castronerie.
Tra i tanti articoli pubblicati oggi dai giornali, soltanto pochi hanno avuto l’accortezza di analizzare il dispositivo della sentenza di assoluzione di Mori e De Donno e affermare che per ben comprendere quello che è accaduto bisognerà aspettare il deposito delle motivazioni della sentenza.
Tra questi, l’articolo pubblicato da “Il Dubbio” a firma di Damiano Aliprandi.
“Crolla il teorema: nessun ‘patto scellerato’ tra la mafia e uomini delle istituzioni – scrive Aliprandi – Ovviamente si dovranno attendere le motivazioni, ma questa riqualificazione della sentenza si può tradurre in un fatto: non c’è stato alcun patto scellerato tra uomini delle istituzioni e la mafia, non c’è stata la trattativa invece teorizzata dalla Procura generale di Palermo. A compiere la tentata minaccia ai tre governi è stata la mafia stessa, molto probabilmente – ma saranno le motivazioni a spiegarcelo – gli attentati continentali del ’93 erano serviti per minacciare lo Stato: la finalità era di piegarlo e avere, magari, dei benefici. La Storia ci dice che lo Stato non solo non si è piegato, ma ha reagito con determinazione. Infatti, ribadiamolo, il reato, per la Corte d’appello, è di ‘tentata minaccia’. Sicuramente è una grande sconfitta per la Procura generale di Palermo. Non è la prima in realtà. C’è Roberto Scarpinato che ha concluso la propria carriera da capo procuratore generale con una chiara decostruzione del suo impianto accusatorio. Crolla, di fatto, pesantemente la tesi giudiziaria portata avanti da decenni.
Ovviamente si dirà che la trattativa c’è stata, perché la Corte d’appello dice che il fatto non costituisce reato. Che i Ros abbiano instaurato un dialogo con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, nessuno l’ha mai messo in dubbio. Gli stessi Ros non l’hanno mai nascosto. Lo sapeva Paolo Borsellino (del tentativo di dialogo con Ciancimino, e non ebbe alcunché da dire), lo sapeva la dottoressa Liliana Ferraro, lo sapeva la stessa Procura di Palermo presieduta da Caselli. Un dialogo volto alla cattura dei latitanti. Pensare che Totò Riina abbia interpretato tale dialogo come un patto per avere i benefici, non solo non è dimostrato, ma sarebbe addirittura esilarante. Quindi sì, che i Ros abbiano “trattato” con Ciancimino è un fatto oggettivo: se li avesse aiutati a risalire ai latitanti, avrebbero protetto le loro famiglie. Come può costituire reato tale fatto?”
Un articolo che straccia in maniera impietosa lo pseudo giornalismo dei professionisti del copia/incolla delle tante veline pubblicate per decenni, favorendo brillanti carriere di presunti eredi dei Giudici Falcone e Borsellino.
A rompere il silenzio, riporta “Repubblica”, il “padre” del pool, l’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, il quale dichiara che «Da una parte, la corte d’appello condanna per il reato di minaccia i mafiosi, dall’altro assolve i colletti bianchi. Quindi vuol dire che la trattativa c’è stata e che non è una bufala»
Forse all’avvocato Antonio Ingroia è sfuggito che i giudici hanno condannato i mafiosi per la “tentata minaccia”, un particolare di non poco conto che non poteva sfuggire a un ex magistrato, oggi avvocato, ma tant’è, il teorema Trattativa si deve portare avanti, anche di fronte all’evidenza dei fatti, a tal punto che lo stesso Ingroia afferma: «Che di questa trattativa debbano rispondere solo gli uomini della mafia, usati come capro espiatorio, e nessun uomo dello Stato, mi pare un risultato ingiusto. Certamente lo Stato non esce assolto da questa sentenza, escono assolti solo quegli uomini dello Stato che erano stati imputati».
Già, solo quegli uomini dello Stato che erano imputati… Se Ingroia voleva processare lo Stato, forse avrebbe fatto meglio a processarlo andandosi a cercare le prove a carico di chi aveva commesso reati, ma a questo non siamo abituati, a tal punto che mentre si continuano a muovere generiche accuse ai Servizi Segreti per essere stati mandanti o partecipi alle stragi – senza che nessun appartenente ai servizi sia mai stato processato per questi fatti – per anni abbiamo processato gli autori di una presunta trattativa che secondo l’accusa aveva lo scopo di bloccare le stragi concedendo garanzie e favori ai mafiosi che li chiedevano con tanto di “papello” (falso –ndr) e senza che nessuno abbia accertato sia arrivato ai destinatari,
Fatto, questo sì ,che avrebbe rappresentato il reato del quale erano accusati Mori e De Donno nell’ipotesi in cui si fossero prestati a fare da “corrieri” dei mafiosi.
Mentre si continua con la caccia alle streghe, si accusano lo Stato, i Servizi e entità varie – ma mai nessuno in concreto – rimane il punctum dolens dell’intera vicenda.
Quel dossier mafia-appalti, frutto dell’indagine dei Ros, voluta da Falcone e che Borsellino, dopo la morte di Falcone, avrebbe voluto portare avanti proprio con gli stessi Mori e De Donno che abbiamo processato per anni.
“L’assoluzione nei confronti degli ex ros Mario Mori e Giuseppe De Donno – scrive Aliprandi – è anche un omaggio a Falcone e Borsellino. O meglio, viene ristabilita la loro dignità. Tutte e due si fidavano ciecamente dei due carabinieri. De Donno era il braccio destro di Falcone: con il verbale recentemente desecretato, ora sappiamo che non solo aveva parlato dell’indagine su mafia e appalti, ma che davanti alla commissione Antimafia aveva voluto sottolineare la loro professionalità. Borsellino si è visto con gli ex Ros riservatamente, si fidava così tanto che aveva detto loro di riferire solo a lui. Ora la coraggiosissima sentenza di secondo grado ci dice che i due giudici uccisi dalla mafia, hanno fatto bene a fidarsi. Non erano stati ingenui.
Adesso è chiaro: Borsellino è morto per ‘mafia-appalti’”
Un argomento sviluppato in un altro articolo di Aliprandi, che riporta le parole dell’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, subito dopo la notizia della sentenza di secondo grado sulla ‘trattativa’
«Alla luce della sentenza della Corte di assise di appello riteniamo avvalorata la nostra tesi di una causale dell’accelerazione legata alla particolare attenzione mostrata da Paolo Borsellino verso il dossier “mafia e appalti”. Dovremo leggere le motivazioni, ma troppe anomalie sono state scoperte in questi anni circa il clima terribile creato in Procura attorno al procuratore Borsellino. Non sappiamo se sarà possibile visto il tempo trascorso, ma noi non smetteremo mai di cercare di capire le ragioni del perché il procuratore Borsellino ebbe a definire il suo ufficio un nido di vipere».
E mentre tutti ci agitiamo a seguito dell’assoluzione di Mori e De Donno, chi ha vissuto il dramma sulla propria pelle (i familiari del Giudice ucciso e lo stesso avvocato Trizzino che ne è il genero) guardano altrove alla ricerca della verità e non dei teoremi da talk show televisivi.
Taglienti a tal proposito le parole di Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, riportate dall’agenzia stampa AdnKronos dopo la sentenza: «Io non ho mai assolto gli ufficiali dei carabinieri, ma ho avuto sempre molti dubbi, che oggi sono stati confermati. Ho ritenuto scorretto pompare mediaticamente un processo prima che giungesse al suo esito. Un comportamento che mio padre non avrebbe mai approvato. La grande amarezza è che queste energie investigative potevano essere impiegate per approfondire, come abbiamo sempre detto, il clima che mio padre viveva dentro la Procura di Palermo».
Ci sarà un giudice a Caltanissetta – non a Berlino – che vorrà approfondire questi aspetti?
Gian J. Morici
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