di Pino Blasone
Perché una traduzione italiana del Saggio sulla libertà di John Stuart Mill, nuovamente in questo momento? Attendibilmente anche se senza allarmismi, perché la situazione attuale vede detta libertà a rischio per una somma di emergenze naturali ricorrenti, e di circostanze storico-politiche correnti. La tentazione di approfittare dellʼemergenza naturale, nella forma specifica della pandemia, può essere forte in alcune menti interessate a sperimentare un regime autoritario o totalitario, che le odierne tecnologie mirate al controllo di massa rendono attuabile perfino meglio – ovvero peggio – che in un triste passato. In particolare, a tal fine, la tentazione può consistere nello sfruttare in una prospettiva permanente un più o meno esteso consenso maggioritario della popolazione, circa misure cautelative pur utili o necessarie ma contingenti.
Ebbene, non è ciò che il pensatore inglese ottocentesco, già a suo tempo, chiamava “tirannia della maggioranza”? Per la verità, J. S. Mill specificava come, in una democrazia, «volontà del popolo significa, praticamente, volontà della parte più numerosa ed attiva del popolo – della maggioranza insomma, o di quella che riesce a passare per tale. Di conseguenza, il popolo può desiderare di opprimere una parte di sé stesso, e le precauzioni sono, a questo riguardo, utili altrettanto che contro qualunque altro abuso di potere. Per queste ragioni è sempre importante limitare il potere del governo sugli individui, anche quando i governanti siano regolarmente responsabili verso la comunità, o cioè verso il partito che nella comunità prevale».
In questa citazione, conviene sottolineare due punti: là dove si parla di una maggioranza “che riesce a passare per tale”. È ciò che oggi è diventato più facile, grazie alla potenza accresciuta dei mezzi di informazione, e al condizionamento che poteri più o meno occulti possono esercitare su essi, perfino sotto le apparenze di una libera socializzazione e circolazione delle idee. Il secondo punto, “limitare il potere del governo sugli individui”, può dare adito a critiche nei confronti del pensiero di Mill, tendenti a definirlo negativamente quale individualismo. Ciò non risponde a verità, dal momento che, se leggiamo con attenzione lʼintero testo “Sulla libertà”, ci accorgiamo di come lʼautore sia tanto preoccupato dei diritti degli individui, quanto di quelli delle minoranze. Anzi, forse soprattutto di queste ultime, e in maniera storicamente preveggente.
Noi non possiamo dimenticare come in Europa nel ventesimo secolo fascismo e nazismo assunsero il loro potere dittatoriale, anche in parte grazie a più o meno libere elezioni. La persecuzione anti-semita, contro la minoranza ebraica, non ne fu che una delle peggiori, razzistiche conseguenze. Quanto a Mill, egli si rifà a un esempio assai più antico, classico e fondante: quello del filosofo ateniese Socrate, condannato ingiustamente a morte non da una tirannide, bensì da una delle prime democrazie, per quanto limitate e imperfette esse potessero essere. Una ellenica democrazia, che evidentemente già aveva avuto il tempo e la disavventura di scadere nel populismo, o di degenerare nella demagogia.
Altro possibile pregiudizio da sfatare è che il Saggio sulla libertà sia un classico del liberalismo conservatore, ancora di recente riproposto in tale veste ingannevole – nonché sovranista – da un conservatore quale Boris Johnson in Inghilterra. Viceversa, nella lunga introduzione alla traduzione italiana in questione ci si è adoperati a mostrare come quello di Mill fosse tuttʼaltro: un liberalismo progressista, non di rado piuttosto libertario. Quanto al suo preteso “sovranismo”, qui si può aggiungere che in altra opera il nostro manifesta una ben diversa opinione: in “Considerazioni sul governo rappresentativo”, capitolo 16, già nel 1849 egli si soffermava sul concetto di “Nazionalità, in connessione col governo rappresentativo”.
E non cʼè dubbio che la sua convinzione sia contraria a ogni forma di nazionalismo, fosse pure il più innocuo sciovinismo: «Lungi dalla nostra intenzione difendere o scusare quei sentimenti che rendono gli uomini sconsiderati o quanto meno indifferenti verso i diritti e interessi di qualsiasi porzione della specie umana, eccetto che per quelli i quali sono denominati nello stesso modo e parlano la loro stessa lingua. Tali sentimenti sono caratteristici dei barbari; solo nella misura in cui una nazione si avvicina alla barbarie, essa tiene costoro in grande considerazione». Tanto più il pericolo sussiste, e diventa interno a una società, quando può accadere che il “sentimento di nazionalità” venga posto al di sopra dellʼ“amore per la libertà”.
Né pare questo uno degli ultimi motivi, che spingeranno Mill a formulare un incredulo ma pessimistico timore, appunto nel “Saggio sulla libertà” pubblicato nel 1859: «Se la civiltà ha prevalso sulla barbarie, quando la barbarie dominava il mondo incontrastata, è eccessivo temere che la barbarie, sconfitta una volta, possa rivivere e riprendere il predominio sulla civiltà. Una civiltà, che potrebbe soccombere così davanti al suo nemico già sbaragliato, deve essere talmente degenerata che né i suoi sacerdoti né i suoi istitutori ufficiali né alcun altro abbiano la capacità o si vogliano dare l’incomodo di difenderla. Se così è, quanto più da questa civiltà si sarà lontani, tanto meglio: essa non può se non proseguire di male in peggio, finché sia distrutta e rigenerata (come l’impero d’Occidente) da più energici barbari».
Questa nota di pessimismo palingenetico contrasta, in generale, con un certo ottimismo prevalente nella trattazione del “Saggio sulla libertà”. Essa tuttavia è sufficiente a farci comprendere come lʼautore non condivida poi una incondizionata fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” dellʼumanità, criticata dal nostro pensoso poeta Giacomo Leopardi nel suo poemetto “La ginestra o il fiore del deserto”. Anche una frequente associazione manualistico-scolastica del pensiero così definito “utilitaristico” di Mill – sulla scorta soprattutto di un suo successivo libro, intitolato “Utilitarismo” – al Positivismo filosofico ottocentesco risulta alquanto omologante e controversa, se non riduttiva.
Del resto, è lo stesso John Stuart a prendere le distanze dal Positivismo francese e dal suo fondatore Auguste Comte, proprio nello scritto qui recensito: «Qualcuno di quei riformatori moderni, che con maggior veemenza hanno dato l’assalto alle religioni del passato, non sono per nulla affatto rimasti addietro né alle chiese né alle sette, nella loro affermazione del diritto di autorità spirituale; citeremo in ispecie Augusto Comte, il cui sistema sociale, quale ei lo espone nel suo “Sistema di politica positiva”, mira a stabilire (piuttosto, è vero, con mezzi morali che con mezzi legali) un dispotismo della società sull’individuo, che supera tutto quanto hanno potuto imaginare i più rigidi tra i filosofi antichi in fatto di disciplina».
In che senso, allora, la filosofia di Mill può essere considerata utilitaristica? Ancora una volta, affidabilmente, in quello esposto da lui stesso nel Saggio sulla libertà: «L’utilità è, a senso mio, la soluzione suprema di qualunque questione morale; ma dev’essere l’utilità nel senso più vasto della parola, l’utilità fondata sui vantaggi permanenti dell’uomo, considerato come essere progressivo». Insomma, libertà di espressione, di associazione, di credo religioso, di idee e di gusti…; purché ovviamente essa non vada a interferire con quella altrui, impedendone o limitandone in qualche modo un utile esercizio e sviluppo.