di Lucia Elia
Dal South Working alla “morte del cartellino”, lo smartworking risveglia i piccoli paesi, a discapito delle città, e cambia il concetto di produttività.
Ma si tratta davvero di un compromesso a zero rischi?
Lavorare da casa sembrava l’esclusiva di giovani e promettenti imprenditori digitali, o di professionisti, consulenti di società multimilionarie, invece la nuova esigenza di lavorare al riparo delle mura domestiche (causa pandemia) ha sdoganato un vero e proprio tabù.
Il lavoro da remoto non è più un’esigenza di alcune categorie di lavoratori (le mamme, ad esempio) ma una soluzione che può giovare a tutti.
Lo smartworking sembra rivelarsi la scelta più conveniente su diversi fronti, infatti consente agli impiegati di risparmiare tempo e soldi – si pensi all’incidenza sul bilancio familiare della benzina, dei trasporti, dei pasti.
Anche i datori di lavoro beneficiano di ulteriori vantaggi, la riduzione del numero delle postazioni necessarie per ogni collaboratore, comporta la riduzione di costi di affitto, attrezzature e utenze.
SETTORE TERZIARIO E SOUTH WORKING
Certamente l’assenza dagli uffici di molti lavoratori porta con se anche alcuni svantaggi se considerati dal punto di vista della gestione economica delle città.
Il sindaco di Milano Giuseppe Sala, sul suo profilo Instagram ha auspicato la fine – o per lo meno la riduzione – dell’attività lavorativa in “smart mode”.
Milano è la città italiana emblema della produttività, dell’innovazione, dei servizi.
Edifici interi e interi quartieri, sono la sede di uffici operativi di ogni settore.
Il rischio che venga meno la funzione di questi spazi è origine di comprensibile preoccupazione per l’economia della città, che vedrebbe calare il valore del mercato immobiliare, ma anche crolli nella ristorazione e nei trasporti.
Per questo lo smartworking potrebbe rappresentare una minaccia per quelle città ad alto livello occupazionale nel settore terziario.
Se il Nord del Paese vede più alta la concentrazione di impiegati nel settore dei servizi, il Sud intravede nello smartworking una nuova opportunità.
Quello che potremmo chiamare: “South Working” è una corrente di pensiero per cui le aziende del Nord potrebbero continuare la loro collaborazione con dipendenti residenti in via permanente al Sud, senza compromettere il rapporto di collaborazione e la qualità del lavoro svolto.
Potrebbe essere una svolta innovativa, quella per cui il luogo di lavoro, (inteso come città), non diventi l’epicentro attorno al quale un impiegato debba far gravitare ogni altro aspetto della propria vita.
La presenza di più lavoratori al Sud inoltre potrebbe rappresentare un volano per l’economia locale dei piccoli paesi.
Il verificarsi di questa possibilità dipenderà dalla vision e dalla cultura delle imprese, che dovrebbero essere disposte a rinunciare alla presenza fisica dei propri collaboratori.
È uno scenario possibile?
Probabilmente lo sarebbe per coloro i quali sono già impiegati, ma con riferimento alle nuove assunzioni si potrebbe correre il rischio di creare un pregiudizio per i candidati “pendolari” (quelli del Sud).
Infatti mentre alcune aziende continueranno a prendere in considerazione esclusivamente le voci formazione, competenze ed esperienze dei CV, altre potrebbero considerare l’esigenza di rivolgersi a dei collaboratori reperibili comunque nelle vicinanze della sede aziendale, considerando esclusivamente i CV provenienti da un’area geografica circoscritta.
In un rapporto percentuale tra le une e le altre, se le ultime fossero in maggioranza il meridione sarebbe nuovamente e ulteriormente penalizzato.
LA FINE DEL “CARTELLINO”
La conversione al lavoro smart non richiede esclusivamente un ripensamento riguardo al luogo di svolgimento delle mansioni, ma senz’altro bisognerà ragionare in un’ottica più flessibile sui tempi del lavoro.
La giornata di lavoro tipo di un impiegato è composta mediamente da sei ore lavorative, in molti casi, segnate all’inizio e alla fine dal passaggio del badge, il cosiddetto “timbro del cartellino” garantirebbe la presenza del lavoratore e attesterebbe l’esatta quantità di tempo trascorsa sulla propria postazione.
Lo smartworking potrebbe apportare un cambiamento culturale nel mo(n)do del lavoro sgretolando la comune convenzione per cui quantità di tempo e quantità di lavoro svolto siano direttamente proporzionali.
Di fatto trascorrere sei ore di call e di meeting (da casa) non consentirebbero all’impiegato di godere dei benefici legati al lavoro da remoto, al contrario potrebbero comprometterne la produttività.
NEOASSUNTI
Secondo una recente indagine promossa da Linkedin i lavoratori più giovani (25 – 39nni) sono meno propensi al ritorno ai “vecchi” ritmi da ufficio[1].
È probabile che i futuri neoassunti, quelli laureati su Zoom, siano dello stesso avviso.
Ma un’azienda è fatta anche di beni intangibili, tra cui i valori che la distinguono dagli altri competitor sul mercato.
Con Linkedin è stato possibile osservare la rilevanza del valore aggiunto apportato dai dipendenti all’impresa quando questi ne sposano la vision.
Possono ancora questi valori emergere ed essere trasmessi ai neoassunti se il rapporto con le altre persone dell’azienda si dispiega esclusivamente attraverso lo scambio di mail e in occasione di una videocall di lavoro?
Non sono le pause caffè e gli scambi di battute alla scrivania a creare dei momenti di socialità che concorrono positivamente nel costruire un team affiatato e una condivisione di valori comuni?
Si tratta di una rinuncia dell’aspetto umano, del rapporto con i colleghi che supera le competenze tecniche e organizzative.
Una perdita che se non considerata e non gestita, nel lungo periodo potrebbe provocare un’erosione di quei valori che hanno conferito all’organizzazione la sua identità, il suo ruolo nel sistema e hanno contribuito ad accrescerne il valore di mercato.
L’esperienza della quarantena ci ha lasciato il bisogno di estrapolare quanto di più positivo a fronte delle rinunce sostenute, in economia si dice ottimizzazione economica degli investimenti.
Superare limiti e limitazioni imposti dai vecchi sistemi sembra un’obiettivo comune.
La domanda e l’offerta di lavoro dovrebbero incontrarsi in un punto che non viene determinato esclusivamente dal livello dello stipendio, ma da criteri che determinano il benessere psicofisico dei lavoratori, come la gestione degli orari di lavoro o la sede in cui svolgere le mansioni.
Potrebbe essere questo il miracolo dello smartworking?
[1] https://www.linkedin.com/feed/news/con-che-spirito-si-rientra-in-ufficio-4895692/