Le misure adottate dal governo per far fronte all’epidemia di coronavirus, lasciano purtroppo scoperti alcuni settori.
Non v’è dubbio che i maggiori rischi di contagio avvengano laddove molte persone si trovino a dover lavorare nello stesso ambiente, altrimenti non avrebbe alcun senso costringere i cittadini a una minore mobilità, chiudere esercizi commerciali, cinema, teatri e vietare gli assembramenti.
Purtroppo, per talune attività, come nel caso delle fabbriche, per contenere il dilagare del virus è necessario trovare anche forme di aiuti economici che non costringano le aziende a licenziare i lavoratori o a chiudere per sempre i battenti. Se questo vale per le aziende produttrici o commerciali, la stessa cosa non può dirsi per quanto riguarda la pubblica amministrazione, che in questo particolare momento potrebbe limitare i servizi a quelli essenziali alla sopravvivenza del paese, riducendo il personale presente quotidianamente negli uffici.
Quello che più colpisce a tal proposito, è la quasi assenza (ufficiale) di contagi tra i nostri militari.
Dopo il caso del generale Salvatore Farina, capo di Stato maggiore dell’Esercito, risultato positivo al coronavirus l’8 marzo scorso, purtroppo è notizia di oggi la morte di un ufficiale superiore dell’Esercito che prestava servizio al Segretariato Generale della Difesa.
Una categoria, quella dei militari, che rispetto ad altri corpi di appartenenti alle Forze Armate e alle Forze dell’Ordine, sembra meno colpita dall’epidemia di coronavirus.
Per fortuna, se così è realmente, visto che proprio all’interno delle caserme dove alloggiano centinaia – se non migliaia – di uomini, spesso in movimento sul territorio nazionale per ragioni di servizio o semplici addestramenti, la nascita di focolai d’influenza sarebbe difficile da controllare e ancor più difficile da arginare, tanto all’interno delle strutture quanto all’esterno. Difficile sapere quello che accade nel mondo militare e ancor più difficile conoscere quali misure di prevenzione e contenimento del virus siano state adottate. Quel che è certo, il fatto che l’eventuale assenza di una predisposizione di servizi (e magari di “alleggerimento numerico” del personale non impegnato per attività indispensabili) che non tenga conto dell’elevato rischio di contagio in simili ambienti, potrebbe rivelarsi una scelta scellerata e catastrofica in danno di chi indossa una divisa e di noi cittadini costretti a sacrifici che potrebbero essere vanificati da quanti per difendere il paese venissero invece considerati “carne da macello”.
Una situazione per certi versi analoga a quello che accade nelle carceri, dove il sovraffollamento, in casi di emergenza quali quello attuale, avrebbe dovuto portare a misure di “alleggerimento numerico” dei detenuti, favorendo, laddove possibile, la misura degli arresti domiciliari anziché quella della custodia in carcere. È ovvio che non ci si riferisce a sentenze passate in giudicato per reati gravi, quanto ai tanti casi di prossimo fine pena e di misure cautelari applicate a soggetti ancora in attesa di giudizio, che per la nostra Costituzione sono dunque da ritenere ancora innocenti.
Proviamo infatti a immaginare anche in questo caso, come nelle caserme, cosa accadrebbe se il virus si diffondesse tra detenuti e polizia penitenziaria. Tutti “carne da macello”?
Di questi aspetti, così come delle tante attività private, anche mediche (ad esempio cliniche di chirurgia estetica, studi e laboratori destinati ad attività non urgenti) torneremo a scrivere nei prossimi giorni, provando a fare una mappa delle categorie che rientrano tra le “carni da macello” e denunciando le lacune delle misure adottate e/o le omissioni e i tentativi di occultare eventuali abusi di servizi o attività urgenti che tali non sono.