CAP. PENULTIMO
C’era una volta ad Agrigento un ecoavvocato (avvocato “ecologista”) con un ruolo singolare nella variegata struttura politico-giudiziaria della città. “Politico” per autodefinizione e manifeste ambizioni era in tale ambiente universalmente esecrato, ma temuto per i suoi veri ed ancor più per quelli millantati, legami con la parte della magistratura locale ansiosa di non rimanere indietro nel manipulitismo trionfante. Nell’ambito della magistratura, salvo qualche lodevole eccezione, era considerato un’utile “proiezione” del timore reverenziale nei confronti delle toghe nel mondo sospetto e “antipatico” della politica. Le sue millanterie, difficilmente immaginabili come sconosciute ad ogni magistrato, erano tollerate ed anche, è da credere, bene accette, in quanto utili ad aumentare il timore reverenziale per il nuovo corso della storia. C’era, poi, qualche caso di vera soggezione, di plagio (come si continua a dire) da parte di qualche magistrato o magistrata particolarmente sprovveduto e, magari, vulnerabile.
L’ecoavvocato in questione assicurava ai P.M. titolari di processi delle chilometriche (e per lo più baggiane) imputazioni imbastite pedissequamente in base alle sue furenti denunzie a nome e per conto (e profitto) di Legambiente, il contrappunto contumelioso nei confronti degli imputati: amministratori suoi “avversari”, funzionari comunali, imprenditori, giornalisti. Una componente essenziale per la “giustizia di lotta” e per la fortuna professionale di magistrati “lottatori”.
Contumelia in tutte le forme e con tutti i mezzi: comunicati stampa, manifesti, striscioni, comizi, libri, “occupazioni” abituali della emittente televisiva locale Teleacras era la specializzazione vera di questo ecoavvocato.
Legambiente ad Agrigento era l’avv. Arnone (avrete capito che parlo di lui). Si costituiva parte civile anche nei processi in cui l’ecologia non c’entrava un fico secco. Inutile opporsi.
Ed inutile reagire alle diffamazioni ed alle calunnie più sbracate: lo scriveva sui libri: “è inutile che mi querelate, tanto mi assolvono”. A buon intenditor poche parole. E le parole in certe situazioni e per certa gente sono pietre.
Per quanto grottesca e sballata, questa figura merita di essere studiata, capita, approfondita per rendersi conto della natura e degli strumenti della conquista del potere giudiziario sulle istituzioni del nostro Paese.
Non è qui il luogo ed il momento di fare la storia delle fantasiose, interminabili cause che questo sciagurato protagonista della vita giudiziaria e politica di Agrigento ha imposto, profittando al contempo della connivenza di certi magistrati e della sordità di fronte alla millanteria di altri.
Dai Tribunali la millanteria passava al Consiglio Comunale, dove, eletto con il P.C.I. ed i suoi eredi più o meno legittimi, dopo aver sfiorato l’elezione a sindaco (si era già proclamato tale prima della fine – deludente per lui – dello spoglio delle schede) aveva continuato ad imperversare, proclamandosi “sindaco in proiezione” della città per i successivi dieci anni. Vicepresidente del Consiglio Comunale, tale, pare, per una “mancia” di Alfano, ne faceva la palestra delle sue acrobatiche maldicenze.
Finché ha trovato chi ha voluto e saputo resistergli: così è arrivata la prima condanna per diffamazione, passata poi in giudicato, sia pure ad una pena irrisoria per la gravità e la perfidia del reato. La considerò un’offesa personale del Procuratore della Repubblica “che avrebbe dovuto perseguire il querelante”.
Da allora il torrente delle querele, delle condanne, è divenuto inarrestabile, come l’imprudente loquela del soggetto. Da querele e denunzie di cittadini, di magistrati. Diffamazione, calunnie etc. etc.
Il cerchio magico con la magistratura locale, del resto, ovviamente, rinnovata nelle persone, si è rotto. Dell’antico “pappa e ciccia” è rimasta la disinvoltura nelle offese. Non credo vi siano altri luoghi d’Italia in cui sia dato vedere sulle cantonate con tanto di volti dei Capi degli Uffici giudiziari, manifesti irridenti le loro persone e piene di ingiurie d’ogni genere.
Pare che tra sentenze passate in giudicato, cause giunte alla condanna ancora non definitiva, procedimenti in corso, ve ne siano centodieci. Più delle cittadinanze onorarie dall’accattonaggio di Di Matteo. Sorvolerei volentieri sulla “distrazione” degli Avvocati e dei loro organismi disciplinari. Ma il fatto che egli ancora possa fregiarsi del titolo di avvocato non ha bisogno di commenti.
Poi si è arrivati ad una sentenza di condanna a pena detentiva (un anno e quattro mesi), senza condizionale (stante i precedenti) passata in giudicato oltre un anno fa.
Il procedimento per l’affidamento in prova ai Servizi Sociali per scontare la pena in luogo del carcere (c’è poco da provare: oltre tutto è imminente il passaggio in giudicato di un altro paio di sentenze che lo porteranno dietro le sbarre per 5-6 anni) è andato incredibilmente a lungo. Pare lo avessero sospeso per la “ripetizione” del ricorso in Cassazione già respinto, cosa in sé alquanto discutibile.
Poi, lunedì 22 gennaio, si è discusso a Palermo, Tribunale Giudice dell’Esecuzione, l’improbabile “affidamento in prova”. Il P.M. ha chiesto che fosse rigettato e che dovesse scontare la pena in gattabuia. Del resto la “prova” della sua irresistibile inclinazione a delinquere l’ha data abbondantemente anche in questo ultimo anno di libertà rubata alla lentezza della giustizia.
Solo quel giorno la quotidiana eruzione più o meno diffamatoria dell’ecoavvocato ha avuto una sola pausa, Di un giorno.
Un lampo di ragionevolezza, se così può definirsi, il Nostro lo ha avuto, infatti, quando, respinta l’istanza di rinvio dal Giudice dell’Esecuzione, il P.M. ha concluso per il rigetto dell’agognata, per quanto assolutamente inutile, “prova”. Ha pubblicato nella sua pagina facebook una specie di saluto, l’avviso che lo avrebbero fatto tacere per sei anni (per il sopravvenire di altri giudicati) lanciando un lamento contro così cocente (stavolta!) “ingiustizia”.
Ma il giorno dopo ha tolto quello scritto ed ha ripreso ad insultare e minacciare.
Minaccia ancora di “far votare per i 5 Stelle” (probabilmente i Secondini!). Diffida il Procuratore della Repubblica perché sequestri subito non so quale patrimoni. Ieri i suoi messaggi si sono fatti affannosi. Chiede al Prefetto di “tutelare la sua incolumità in pericolo”, invoca un intervento di Vittorio (Sgarbi?) (oggetto della sua ultima millanteria) di impetrare da Minniti la protezione della sua vita (visto che rende spacciarsi per “condannato a morte” dalla mafia).
Vuol “far finta di niente”? Vuole mostrarsi impavido di fronte alla prospettiva di dover scrivere “le sue prigioni”? Credo piuttosto che, se ha consumato l’ultimo anno, dopo il giudicato che lo spedisce in carcere, a provare che è inutile che si speri che si “ravveda” andando a svuotare i pitali in qualche ospizio, vuole consumare gli ultimissimi giorni a dimostrare di essere in condizioni di salute mentale ostative all’applicazione della pena. Buona idea (si fa per dire). Peccato che a provar tale stato è un comportamento tale e quale a quello tenuto quando era in auge e certi magistrati pendevano dalle sue labbra. Ma tentar non nuoce.
Resta l’ultimo capitolo di questo brutto romanzo.
Mauro Mellini