Una sciocchezza solenne e miserabile quella del P.D. che ha cercato di buttare la colpa della sua clamorosa sconfitta in Sicilia su Grasso, che aveva rifiutato di rinunziare alla poltrona di Presidente del Senato per andare a mettersi alla testa del P.D. e, magari, di una ipotetica coalizione, cioè al posto di Crocetta.
Una sciocchezza spiegabile con la disperazione della catastrofe. E tale, poi, da evidenziare un fatto vero: il P.D. non aveva più uno straccio di personaggio “presentabile” al posto del peggior Presidente pensabile contro cui si profilava l’ira dei Siciliani. E questa, in fondo è la prima verità, presupposto di quella incredibile stupidaggine.
Ma il rimprovero a Grasso di non aver accettato di far la parte del babbeo che il P.D. gli chiedeva di recitare rivela ancora un’altra verità.
Quella della natura del rapporto tra un magistrato senza particolari qualità “sceso” (cioè, salito) in politica ed il partito che gli aveva consentito la rapida, folgorante arrampicata.
In quel rimprovero, al di là, anche se non al di sopra, della sua stoltezza c’era e c’è implicita la contestazione di un’altra verità: Tu non eri nessuno (il Procuratore Nazionale Antimafia è il magistrato più inutile, alla testa di una schiera di Sostituti per lo più “distaccati” a casa loro a prendersi l’indennità di trasferta, incaricati della funzione più evanescente, quella di “coordinare” le Procure Distrettuali) e che da noi hai avuto, pivello di prima legislatura, la seconda carica dello Stato, ci dovevi obbedienza assoluta e te ne sei sottratto.
Un ragionamento, che, prescindendo dalla mal riposta fiducia nell’umana riconoscenza, non è che faccia molte grinze.
Una terza verità che sta dietro quella stolta “scusante” del disastro: Grasso, pur attaccato con la colla alla sua poltrona (la ridicola storia delle dimissioni dal gruppo del P.D., ma non dalla Presidenza ed al momento opportuno!!!) è già da molto tempo ossessionato dalla “necessità” di trovarsi un’altra occupazione politica alla fine di questa legislatura. La Presidenza della Regione Siciliana, se conseguibile, sarebbe stata comunque meglio che niente. Ma uno che ha fatto quel bel salto in alto inconcepibile, senza manco rendersi conto come, non fa un passo indietro, e non rinunzia a qualche mese del suo canonicato.
Detto tutto questo e senza bisogno di un giudizio sul personaggio che è, come si diceva una volta un “re ipsa”, rimanendo ad una semplice evocazione dei fatti, si può dire che la fregola di ricerca di una pubblicità da parte di Grasso è andata crescendo in questa ultima fase della legislatura che ha visto la sua sciagurata presidenza del Senato.
E’ rimasto relativamente nell’ombra fino al referendum, che aveva ad oggetto una riforma costituzionale nella quale campeggiava come dato centrale proprio la ridicolizzazione del ruolo del Senato.
Ad essa Grasso non solo non si era opposto in alcun modo, ma aveva facilitato dal seggio presidenziale, l’iter della sciagurata riforma del Ramo del Parlamento da lui presieduto. Si può dire che avesse accettato senza fiatare il ruolo di “commissario liquidatore” di quel prestigioso consesso. Il suo servilismo nei confronti del P.D. e di Renzi che lo avevano raccolto tra la selva dei candidati per farne la seconda carica dello Stato, sembrava, allora, non aver limiti.
Ma poi ha cominciato ad agitarsi. A cercar di porsi come il personaggio leader di un’Antimafia devozionale”, icona salmodiante tra le icone di quel culto. Più volte ho avuto modo di ricordare quella sua incredibile giaculatoria del culto cretino delle vittime degli assassini mafiosi, consistente nell’“elevare di grado” il crimine della loro uccisione. Fare delle “semplici” vittime della mafia qualcosa di più, promuovendole “vittime di assassini di Stato” (Servizi Segreti, Massoneria, C.I.A. etc.). Dichiarò che risultava che Falcone fosse “solo” una vittima della mafia, ma che “sperava” che così non fosse, che qualche pentito venisse fuori a “provare” che c’era dell’altro, tributando così a Falcone una “promozione” meritata. Per la seconda carica dello Stato non c’era bisogno d’altro per esser relegato nel novero degli “impresentabili”.
Le sue sparate su questioni di merito delle discussioni nel suo Ramo del Parlamento sono celebri. Ha preso a comportarsi come il portavoce di una corrente. E soprattutto, ha perso la capacità ed il senso del dovere di tacere per rispetto delle sue funzioni.
Le dimissioni dal gruppo parlamentare del P.D., al quale il Presidente rimane iscritto solo perché l’appartenenza ai Gruppi è definita prima della elezione della Presidenza, è un fatto che dice tutto dell’uomo. Mica si è dimesso da Presidente quando il Rosatellum ha preso la forma e la sostanza di una indecente violazione del principio dell’elezione dei parlamentari “con voto diretto” dei cittadini. Ha aspettato che divenisse legge, che Mattarella la promulgasse malgrado la sua incostituzionalità e poi si è dimesso da ciò di cui la sua carica gli vietava doversi considerare parte. Una miserabile sceneggiata.
La sua stessa appartenenza di fatto al Partito dei Magistrati, unico titolo di una sua presenza in politica, è ambigua e contraddittoria.
Si direbbe che appartiene alla fazione di quel partito del “potere tutto e subito” (anzi “anticipato” e “gonfiato”). Magistrato di partito (salvo stabilire di quale) ed al contempo del Partito dei Magistrati. Lo sfasciamento del P.D. gli consiglia l’accattonaggio di una nuova collocazione in qualche altra formazione politica (si fa per dire). Pare che la cosiddetta Sinistra, la frangia estromessa dal P.D. con i residuati di precedenti esondazioni gli offra di divenir il loro leader.
A quanto pare avrà nelle sue schiere anche altri, accattoni di un po’ di pubblicità per il loro accattonaggio. Si meritano cotanto condottiero.
Mauro Mellini