Lombardia e Veneto hanno fatto il loro bravo referendum per ottenere una autonomia “speciale”.
Il risultato è stato sostanzialmente negativo per la Lombardia (il 37% dei partecipanti è quale che ne sia la manipolazione, un fiasco solenne) e positivo per il Veneto.
Quello che è mancato vistosamente nel referendum e manca, quindi, ad ogni possibilità di analisi del risultato e di previsione degli effetti è il contenuto (non è certo poco) della specialità dell’autonomia, della sua estensione e dei suoi meccanismi. In altre parole: ancora una volta il “sentito dire” ha fatto irruzione nella vita pubblica del nostro povero Paese.
L’istituzione delle Regioni, che è apparsa come la più rilevante innovazione della Costituzione del 1948, è stata, in realtà un fallimento.
Non se ne è saputo trarre quanto di buono in essa era ricavabile e se ne è lasciato sviluppare il peggio. Quanto alle autonomie speciali delle cinque regioni (quattro regioni e una città-provincia, Aosta) essa è stata segnata dal carattere prevalentemente funesto di condizione implicitamente imposta a seguito del disastro della guerra per conservare la sovranità su quelle terre. La Sardegna, d’autonomia non qualificabile come alternativa alla secessione ed al passaggio sotto altra sovranità, ma autonomista con connotazioni fortemente “patriottiche”, ha avuto una “specialità” che la fa probabilmente, nella sostanza, meno autonoma delle regioni a Statuto Ordinario.
Lo snellimento dei pubblici poteri, che avrebbe dovuto essere frutto del trasferimento più vicino alla gente, più adatto alle particolarità delle esigenze locali, meno gravate dalle complicazioni imposte dalla lontananza, si è risolto in una sovrapposizione della burocrazia e della pletora normativa regionali a quelli statali, fenomeno che la “specialità” della Regione Siciliana ha fatto lievitare fino al grottesco inverosimile.
La Sicilia, che aveva tradizioni ed aspirazioni di autonomia maturate fin dall’epoca pre-risorgimentale (anche la Chiesa Cattolica in Sicilia aveva una sua “autonomia speciale”) ha sprecato nel modo più disastroso il privilegio delle “specialità” e della autonomia e della stessa regionalizzazione del potere.
Il federalismo leghista, poi, ha assunto carattere prevalentemente carnevalesco, con i riti “padani”, le milizie verdi, gli strampalati e vaghi progetti di autonomia scolastica, giudiziaria e militare. Il federalismo, per i seguaci del Senatùr è quella cosa per la quale “col cavolo che Roma ladrona si prende più tutti i soldi perché a noi ce ne deve dare di più”.
Il regionalismo ha reso più deleterio il sistema della cosiddetta “finanza derivata” (i soldi che vengono da fuori, dal Centro) che è l’opposto della concezione autonomista ed è il fomite e la giustificazione dello spreco e della “spesa purchessia per non perdere i finanziamenti”.
E’ mancato, poi, un sistema giuridico tale da non creare confusioni e conflitti, di coordinamento di leggi statali e regionali.
La formula adottata nel finale di una quantità di leggi dello Stato “E’ fatta salva la competenza delle Regioni a Statuto Speciale” o, semplicemente “delle Regioni” è un capolavoro di stoltezza e di inconcludenza: la “competenza” riguardo il legiferare, non ha la portata e la composizione del legiferato. Risultato: un pasticcio che rende ancor più pesante e sregolato il potere interpetrativo, l’invadenza, per tale strada del Partito dei Magistrati, quando non provoca obiettiva paralisi dell’efficacia e della effettiva applicazione dell’uno e dell’altro ordine di norme.
Del resto la storia insegna che gli aggregati federativi che reggono e che trovano un valido assetto politico sono quelli che uniscono quel che era separato, non quelli che separano ciò che era unito.
I fenomeni secessionisti che si sono sviluppati in Europa nel dopoguerra sono, del resto, frutto di enfatizzazioni emotive di differenze che, magari, la Costituzione degli Stati nazionali non ha saputo ben tutelare e far sviluppare.
Oggi, e qui torniamo all’occasione di questo scritto, l’autonomismo “speciale”, tendenzialmente secessionista è generato soprattutto dal fatto che la classe politica ha un livello qualitativo la cui inadeguatezza è direttamente proporzionale alla dimensione, al livello del potere da essa esercitato. Si trovano sindaci meno inefficienti di ministri e presidenti generalmente piattamente da operetta. Ma l’idea che, rese autonome o sovrane regioni e porzioni di territorio sarebbe raggiunta una maggiore adeguatezza alle funzioni di governo della classe politica è una solenne sciocchezza. Poiché la “promozione” alla sovranità o della “specialità” delle entità territoriali secessioniste, esige qualità e competenza dei governanti che non sono quelle dei sindaci e dei Presidenti di regione e che non accontentano automaticamente così l’attribuzione di funzioni più elevate.
Il secessionismo, in Italia o fuori d’Italia, o, magari, la “specialità” dell’autonomia che ne è, al contempo, l’antidoto e l’anticamera, è il frutto di una incapacità di utilizzare razionalmente e con buoni risultati l’autonomia ed anche il decentramento amministrativo ed è la naturale, anche se sbagliata, reazione ad un peso eccessivo di un fardello legislativo inestricabile e foriero di prevaricazioni ed abusi.
Un po’ di umiltà verso gli insegnamenti antichi ma non vecchi dell’illuminismo potrebbe salvarci da molte sciagure.
Mauro Mellini