Non è poi vero che in Italia, come diceva il mio Maestro Carlo Manes (che non fece a tempo a vedere il peggio) per andare in galera non c’è bisogno di un motivo, perché basta una buona motivazione.
In primo luogo, intanto una buona motivazione è sempre più raro che si trovi qualcuno che la sappia stendere e che perda tempo a farlo. Tanto meno la ritengono necessaria e sanno concepirla e scriverla quei magistrati che ti schiaffano in galera con disinvoltura in base alla loro fantasia ed ai loro ardori di impavidi lottatori.
Ma proprio per questo, per la disinvoltura irresponsabile (nelle diverse accezioni del termine) con la quale nel nostro Paese si schiaffa la gente in galera, quando la giustizia, si fa per dire, mostra di essere reticente e recalcitrante a mettere in galera personaggi che, fuori dal carcere, sono sempre (e, magari, sempre più) fuori dal loro posto, anziché rallegrarci e prendere atto che il livello medio della disinvoltura a ricorrere alle manette venga così in qualche misura attenuato, l’allarme ed il malessere dello spettatore (si fa per dire: più che spettatori siamo tutti cittadini in lista di attesa per far di ciò esperienza diretta) aumenta e, magari sorge il sospetto che tra disinvoltura e reticenza ci sia chi sa quale connessione e dipendenza. Non quella indiscutibile, rappresentata dal fatto che sempre di ingiustizia si tratta e che essa dipende pur sempre dalla stessa ignoranza e da analoghe preoccupazioni per problemi, obiettivi e stimoli che con la giustizia hanno poco a che vedere.
Anche per questo, Sciascia insegna: “la Sicilia come metafora”. E, almeno per certi versi, Agrigento come metafora della Sicilia.
Nella Città dei Templi per molti anni il protagonista di una parodia di “Mani Pulite” non fu un magistrato, ma uno strano avvocato, autoproclamatosi esperto ecologista, ed esperto del diritto amministrativo, Padre-padrone di Legambiente, Giuseppe Arnone, detto, non senza ragione “Pepè Corrimprocura” autore di libri, manifesti e trasmissioni televisive in una TV locale da lui monopolizzata con i quali sbeffeggiava, minacciava e, soprattutto “ispirava” iniziative dei P.M. Temuto perché considerato “intoccabile”, nei suoi libri diffamatorii inseriva una “premessa”: “è inutile che mi querelate, tanto mi assolvono”. Affermazione che, diversamente da quasi tutto il resto, si manifestava sorprendentemente veritiera.
Alle sue denunce facevano seguito inchieste giudiziarie, incriminazioni, processi e condanne “pedisseque”. Era temuto e sapeva valersene. Chiunque osasse resistergli veniva aggredito con i mezzi mediatici più diversi e grotteschi (striscioni etc.). Seguivano processi, in cui si costituiva, si può dire quale che fosse l’imputazione, parte civile per Legambiente ed altre associazioni più o meno realmente esistenti e funzionanti. Processi tutti caratterizzati dal mutamento del capo di imputazione a metà dibattimento, alla cui richiesta della parte civile, cioè di Arnone, immediatamente aderiva la Procura.
La furia dell’”ecologista” per la costruzione di opere essenziali, come il depuratore di San Leone, ispiratrice di una grottesca persecuzione giudiziaria contro progettisti, sindaco, appaltatori, persino dei sostenitori sulla stampa della necessità dell’opera, fatta propria con zelo al contempo indecente e comico dalla Procura (e non solo) può considerarsi emblematico di una fase della giustizia agrigentina e del suo asservimento a “campagne” ed all’inverecondo battage del singolare personaggio.
La scarsa dimestichezza di un po’ tutti i magistrati con i meccanismi amministrativi e con il diritto amministrativo ha fatto sì che molti, troppi di essi, pendessero dalle labbra dell’ecologista, che di questo suo grottesco ruolo e del timore circospetto che esso sembrava procurargli tra cittadini, imprenditori e colleghi avvocati, ha fatto un uso spregiudicato, in cui la sua vocazione alla diffamazione ed al dileggio è divenuto lo strumento di ridicole sue aspirazioni ad una gran carriera politica e di altro. Finché non ha trovato qualcuno che paura non ha avuto. Quasi stupefatto di divenire oggetto di immaginabili reazioni, di procedimenti penali e di condanne, il Nostro si è rivoltato inviperito contro quei magistrati che riteneva di avere in pugno, scatenandosi con i suoi sistemi contro quelli che si era vantato, o lasciato intendere, di avere alla sua mercé e dei “nuovi”.
E’ arrivato a fare manifesti con i volti dei Capi degli Uffici Giudiziari e quelli di altri suoi “nemici”. Manifesti di dileggio nel suo solito stile.
Ha cominciato a collezionar condanne, dapprima per diffamazione (o pene, in verità, particolarmente lievi) poi per calunnia. Ma, cosa strana, benché sia giunto a forme incredibili di aggressività e di virulenta offesa, la mano della giustizia è stata sempre leggera, timorosa, si direbbe, nei suoi confronti. La dimenticanza di una facile contestazione di un elemento essenziale di reato ha fatto sì che in un caso in cui si era proceduto alla sua custodia cautelare, riuscisse a cavarsela.
Ora una sentenza passata in giudicato lo condanna a pena detentiva senza condizionale (ne aveva fruito abbondantemente). E’ però passato quasi un anno ed ancora si attende la decisione circa “l’affidamento in prova”. Una prova che sta fornendo, negativa, a piede libero. Nel frattempo altre condanne e l’insistere sulla sua incontenibile logorrea diffamatoria.
Non sarà così, ma si direbbe che i magistrati (che, poi, non sono più quelli degli anni della “collaborazione”) abbiano ancora, nei confronti dell’”ecologista”, suggeritore ascoltato di sgangherati capi di imputazione, nei confronti di chiunque gli facesse ombra, quel timore reverenziale che ogni magistrato, in verità, dovrebbe avere nei confronti della libertà personale di qualsiasi cittadino, cosa che oggi è passata di moda e ritenuta debolezza ed inefficienza nella “lotta” contro le varie forme del crimine.
Pluricondannato, diffamatore e calunniatore seriale, Giuseppe Arnone è “a piede libero” in attesa di un affidamento per una “prova” che non è più necessario perché l’ha già fornito: negativo. E, questo è il colmo, continua a fare l’avvocato. In mezzo ai “colleghi” che ha svillaneggiato e diffamato uno per uno, pubblicamente, gratuitamente.
Misteri dell’immensa misericordia che vien fuori quando meno te l’aspetti (e meno se ne sente il bisogno).
E’ una smentita dell’esistenza di una giustizia invadente e manettara, che ignori garanzia e garantismo? Nossignori. Direi che ne è necessario complemento, l’altra faccia della stessa medaglia. Senza bisogno di ricorrere a chi sa quali dietrologie, che pure fanno parte della cultura di questo sistema.
Mauro Mellini