Il Presidente dell’A.N.M., Albamonte, il “sindacato” dei magistrati, che ha sostituito il dimissionario Davigo, ha fatto una dichiarazione che ha subito soddisfatto quegli ambienti politici che, peraltro, non hanno mai osato mostrarsi almeno allarmati degli atteggiamenti dell’ala oltranzista della Magistratura e dello stesso Davigo e neppure di quelle proposizioni, specifico oggetto della “presa di distanza” di Albamonte, che si continuano ad attribuire a Magistratura Democratica come una particolare ideologia.
In sostanza Albamonte ha respinto la tesi per la quale la Magistratura dovrebbe difendere i diritti personali dei cittadini piuttosto che il diritto di proprietà.
Ora, a parte il fatto che nessun “passo indietro” sembra che Albamonte abbia osato compiere proprio nei confronti di quella “giustizia degli indizi” che, di fatto, ha distrutto, con l’abuso delle c.d. misure di prevenzione, la certezza della proprietà e delle garanzie del credito, il fatto più rilevante, tale da accrescere l’allarme per gli atteggiamenti della Magistratura anziché farlo diminuire, è che, per “moderata” che sia la scelta propugnata da Albamonte (e che non lo è) è pur sempre una “scelta di una politica”, anzi, di valori fondanti di una politica. Il vero “passo indietro” (che sarebbe, poi, il vero “passo indietro” della Magistratura sulla strada della compostezza e della normalità nel contesto istituzionale e costituzionale, sarebbe quello del rifiuto di ogni scelta di “obiettivi”, di valori da difendere piuttosto di altri, di ogni “lotta per…” di ogni qualificazione di sé stessa come “anti” (antimafia, anticorruzione etc.).
Che sarebbe, poi il ritorno alla giustizia che pretende solo di essere tale, cioè, giustizia e basta.
Dire ciò non è inutile, soprattutto per impedire che un’ulteriore alibi copra l’inerzia incredibile della nostra classe politica di fronte all’espandersi arrogante del potere del Partito dei Magistrati, nel quale, al di là ed al di fuori delle controversie ideologiche (quelle sulle quali andò sviluppandosi la politicizzazione della Magistratura ai tempi del sopravvenire sulla scena di Magistratura Democratica).
A novembre il Congresso dell’Associazione Magistrati avrà come tema “I Magistrati e la politica”.
Potrebbe essere, una volta tanto, un dibattito su di un tema centrale, l’unico veramente ineludibile, della vita del Paese.
Ma si può star certi che non si andrà oltre le solite questioni particolari e marginali: se possa il magistrato “sceso” in politica tornare ad amministrare giustizia; se le attuali norme circa l’eleggibilità nei luoghi dove i magistrati hanno avuto il loro ufficio siano sufficienti. E così via. Il problema vero, quello dell’esistenza, dell’ammissibilità, della compatibilità con l’assetto costituzionale democratico, di un “partito dei magistrati” sarà argomento accuratamente evitato e vietato.
Né dalla stampa, dall’ambiente politico e dalle Istituzioni verrà alcuna sollecitazione ad affrontare certi temi.
Non mancherà, forse, ma rimarrà tra le questioni “sotterranee”, uno scontro, o, almeno l’eco di uno scontro, tra la fazione “moderata”, che mira al rafforzamento del potere politico della Magistratura e della giurisdizione e gli “impazienti”, quelli propensi a scendere in campo, a conquistare Ministeri, seggi in Parlamento, Amministrazioni Comunali e Regioni e, soprattutto, ad imporre una ulteriore brusca sterzata all’ordinamento giuridico ed istituzionale, nella direzione di una vera e propria “giurisdizionalizzazione” dello Stato, con una “normalizzazione”, espansione ed intensificazione di una legislazione di tipo “antimafia” in campo amministrativo e penale, con la riduzione del processo al palcoscenico di una “giustizia di lotta”.
Così, più che al Congresso dell’A.N.M. è il caso di fare attenzione a non meglio definiti, nel contesto istituzionale, “Stati generali della lotta alle mafie” che, a chiusura di una incubazione di oltre dieci mesi, dovrebbe varare una sorta di riforma istituzionale e sociale per “mettere l’antimafia al centro della politica e della società”. Vorrebbe essere, questo, il passo definitivo verso uno Stato totalitario o giù di lì, di nuovo tipo giudiziario: Toghe nere della rivoluzione, in piedi!
Non staremo a guardare. E non credo che questi rivoluzionari che, pur avendo già procurato al Paese danni ingenti, seminato scompiglio e prodotto paura e rassegnata ubbidienza da parte della classe politica degli amministratori e funzionari e tra gli imprenditori, provocando il deterioramento della vita civile e politica, con una selezione che ne allontana i migliori e vi fa spazio agli avventurieri, tuttavia sono e rimangono delle caricature di nuovi occupanti del potere, finiranno per imporsi realmente al rispetto ed alla fiducia della gente.
Al contrario. Passati gli entusiasmi del “manipulitismo” e quelli dell’antipolitica che ne è stata generata, cresce nel Paese l’insofferenza per l’impotenza di una Magistratura priva di responsabilità, ribelle rispetto ai limiti di differenziazione di ruoli.
L’alleanza tra l’estremismo giudiziario quale quello di un Di Matteo con i Cinquestelle ha nuociuto all’uno ed agli altri, evidenziandone la comune caratteristica buffonesca. La rabbia e l’insofferenza contro l’antimafia mafiosa ed arrogante, che pesa ed opprime la vita sociale e politica del Mezzogiorno (e non solo) sale e trabocca. Se ne vedrà l’effetto nelle elezioni regionali siciliane. Ma rabbia ed insofferenza non debbono essere lasciate senza sostengo e possibilità di un’espressione razionale e “pulita”, non soggetta a nuove degenerazioni di tipo grillino.
Nella Magistratura non sono pochi quelli che si rendono conto di questa situazione.
Ma anche tra i Magistrati la paura “el miedo”, come piace dire a Maximiliano Granata, prevalgono sulla razionalità di chi ancora la conserva.
Chi ha senno deve avere coraggio e chi ha coraggio è l’ora che lo dimostri.
L’Italia non merita una nuova, tristissima esperienza autoritaria.
Mauro Mellini