Venticinquesimo anniversario dell’assassinio di Falcone.
L’ipocrisia, la strumentalizzazione e l’idiozia delle commemorazioni, specie palermitane, ha superato ogni limite di tollerabilità.
Non si stancano di ripetere che Falcone era andato a Roma, al Ministero, per meglio organizzare gli strumenti legislativi della lotta alla mafia. E’ questo un falso ridicolo e patente. Se ne era andato perché i suoi colleghi gli avevano reso irrespirabile l’aria di Palermo. Quelli stessi che poi lo hanno eretto a santo e maestro, che se ne sono dichiarati eredi e continuatori.
Ciò è tanto più noto quanto più sfacciatamente e tranquillamente dimenticato.
C’è invece un altro aspetto dell’oscenità di certe “commemorazioni” che di anno in anno si fa più petulante, assurdo, aggressivo ed eversivo.
E’ la pretesa di “dovere” a Falcone, come a Borsellino e come già ad altre vittime della ferocia mafiosa, una “promozione”. Non basta la glorificazione a base di false affermazioni di aver lasciato un’eredità morale e politico-professionale luminosa e straordinaria per poter aumentare il bollino dell’appropriazione indebito di essa. Ritengono di dovere a queste vittime illustri (ed anche a qualcuna un po’ meno illustre, se questa “graduazione” è lecita) di essere riconosciute vittime di un assassinio “che non fu solo di mafia”.
Vittime illustri, dunque assassinio “straordinario”. Di Stato.
E qui vien fuori la subcultura della Sinistra pseudorivoluzionaria degli “anni di piombo”, per la quale era d’obbligo, anche tra i vezzeggiatori degli assassini terroristi, proclamare l’assioma: “la strage è di Stato”, di fronte ad assassini di diversa (?) matrice.
L’Antimafia militante e ruggente (e petulante ed ipocrita) sente il “dovere” di proclamare che gli assassinati dalla mafia non sono tali, o, almeno “non sono solo di mafia”. Quelli più importanti, sono anche, debbono essere, se no è una mancanza al rispetto ed alla memoria loro dovuti, “di Stato”.
O, nel linguaggio attuale, che, poi, non è meno arrogante e falso di “pezzi dello Stato”, senza rinunziare a “pezzi” ed anche all’intero di altri Stati (“c’è dietro “la CIA” è un altro cespite dell’eredità subculturale della Sinistra).
Anni fa rimasi molto scosso sentendo il figlio “mafiosociologo” Nando del Generale Dalla Chiesa proclamare che il Padre non era stato vittima della mafia, ma di un “assassinio di Stato”. Ci teneva ad affermarlo come se si fosse trattato di una promozione. Per sostenerla, affermava che il Genitore doveva essere entrato in possesso (!!!) di documenti così compromettenti, mi pare, per il solito Andreotti che questi (o un altro “uomo potente”) per evitare che potesse “servirsene” lo avrebbe fatto uccidere.
Che l’assassinio “di Stato” sia più appagante per i parenti della vittima e più glorificante per essi di un “qualsiasi” assassinio di mafia, è in sé proposizione aberrante più che stolta.
Ipotizzare, che, poi, tale “qualifica” sarebbe stata ricollegabile ad illeciti del Generale, (che non voglio nemmeno qualificare secondo il codice) per poterci “arrivare” è cosa sconvolgente oltre che decisamente cretina.
Mi fece piacere, poco dopo, sentire che la Sorella, la Figlia del Generale assassinato, aveva risposto alla domanda, appunto se ritenesse quell’assassinio del Padre, “di Stato”, rispose con un netto no. Si direbbe che a non essere dei “mafiosociolghi” i vantaggi intellettuali non sono pochi. Quelli intellettuali.
Questa esigenza di tributare alle vittime più illustri della mafia una “promozione” del loro assassinio si è fatta, intanto, più petulante, assurda e strumentale e, quindi, ipocrita.
Al contempo il campo delle ipotesi, che per certi fanatici antimafia sono dogmi prima ancora di essere formulate, appunto come ipotesi, si estende.
Valgono a coprire gli errori degli stessi inquirenti nelle indagini a suo tempo svolte sugli assassinii, le bugie dei pentiti e persino le baggianate compiute allora dagli stessi “eredi” putativi degli assassinati ed il loro frenetico anarchismo togato.
Abbiamo scritto delle “speranze” di Grasso, pur nell’assenza di qualsiasi indizio di “mani estranee” nell’assassinio di Falcone, speranze in future diverse risultanze. Pare, se la cronaca del convegno all’Orto Botanico di Palermo del 24 maggio, promosso da Ingroia e Di Matteo è esatta, che il Presidente del Senato sia venuto “sviluppando” le sue speranze, indicando il modo di realizzarle. Per avere la “promozione” delle stragi in cui persero la vita Falcone e Borsellino con la “scoperta” di una partecipazione “di Stato”, “occorre qualche collaboratore (pentito) o interno alla mafia o di Stato”. Con così autorevole prescrizione si direbbe che il pentito “occorrente” non mancherà di certo. Grasso è una miniera di rivelazioni degli oscuri pensieri ed anche dei metodi dell’Antimafia.
Ed è singolare che questa analisi presidenziale su ciò che ci vuole per una nuova, agognata “verità” su quella strage sia stata espressa in un convegno il cui tono ed il cui oggetto era essenzialmente la lamentela sullo “scarso impegno” per trovare più appaganti “verità”. Scarso impegno, quindi, nel “procurarsi” nuovi e più fantasiosi pentiti.
Questo atteggiamento, oramai dilagante e d’obbligo tra magistrati, tra i “professionisti dell’Antimafia”, è espressione della loro “ignoranza sospettosa”, fenomeno non nuovo né circoscritto a questo campo, con tutta l’ipocrisia e la malafede che sono implicite in questa “forma mentis”. Ma c’è chi malafede ed ipocrisia ne possiede e ne usa assai di più e sa valersene per profittare della “ignoranza sospettosa” degli altri. Così nascono i progetti e non solo i progetti del giudizial-populismo, con i suoi fanatici, i suoi rituali e le sue cittadinanze onorarie.
Mauro Mellini