La vertenza Alitalia è giunta ormai ad una svolta: la pre-intesa sottoscritta da quasi tutte le sigle sindacali presenti alla trattativa, ma non da USB, è in questi giorni sottoposta ad una consultazione non democratica e sicuramente poco trasparente. Manca il quorum, mancano regole cristalline e soprattutto è mancata l’informazione ai lavoratori sui contenuti di quanto sottoscritto. Per questi motivi USB considera questa consultazione una truffa e allo stesso tempo da indicazione di votare NO a tutti coloro che si recano alle “urne”.
Dopo tanto parlare, scrivere e speculare sulla situazione Alitalia, è ormai tempo di semplificare al massimo l’analisi. 1 – Alitalia, prima pubblica e legata alle beghe di partito e ora privata, sbaglia piani e strategie da decenni e perde una montagna di soldi. 2 – Alitalia é stata guidata o controllata da management pubblici o privati indicati o spalleggiati da quasi tutti i partiti. Quindi nessuno di essi, nessun ministro e nessun partito, si senta ora sopra le parti o giudice imparziale rispetto all’ennesima tragedia sociale che si sta consumando. 3 – Alitalia da decenni non è più considerata la Compagnia di bandiera e paradossalmente le maggiori sovvenzioni pubbliche sono arrivate alle low cost, prima fra tutte Ryanair che oggi è il maggiore operatore in Italia. Tutto è iniziato quando Alitalia era sotto controllo pubblico e continua anche oggi che è privata. Ed è accaduto senza che i vari governi abbiano mai detto una parola sul fatto che Ryanair, tra l’altro, non paghi le tasse in Italia, paghi gli stipendi del personale italiano all’estero e non applichi lo statuto dei lavoratori.
Un lassismo istituzionale e politico che è costato decine di migliaia di posti di lavoro, l’abbandono di un settore strategico e soldi dei contribuenti sperperati a palate in operazioni strampalate. 4- Alitalia quindi portava con sé una ricchezza economica e sociale che è stata in gran parte dilapidata ma sarebbe ancora in grado di produrre occupazione e reddito per il paese e per i lavoratori perché il mercato del trasporto aereo anche nel nostro paeseviaggia con crescite del 4-5 % annuo. 5 – Alitalia non si salva però con l’ennesimo piano strategicamente ed industrialmente sbagliato e suicida. Non ci si salva facendo concorrenza alle low cost ma costruendo una rete che si basi principalmente sul lungo raggio, sui voli intercontinentali dove si fanno più soldi e “ancora” non esiste la concorrenza delle low cost. Per fare questo ci vogliono soldi e un impegno di almeno due o tre anni Allo stesso tempo serve però anche un piano politico che ridisegni il trasporto aereo italiano e costruisca un sistema di regole certe che tutte le aziende del settore devono rispettare. Il pubblico deve smettere di sovvenzionare le low cost e deve invece dotarsi di meccanismi legislativi e regolatori che impongano a tutti il rispetto delle leggi. Alitalia non può farcela da sola e senza un intervento diretto dello stato, sia dal punto di vista dell’impegno economico per avviare un reale piano industriale che preveda l’utilizzo di decine di aerei di lungo raggio, sia in termini di ridisegno del sistema del trasporto aereo italiano. Queste due ultime condizioni sono ineludibili. Chi opera in questo settore sa bene che le alternative non esistono e che qualsiasi ipotesi o piano diverso può servire soltanto ad “allungare il brodo” di qualche anno e ritrovarsi tra uno o due anni in condizioni peggiori di quelle attuali. Quindi anche il piano attuale è destinato a fallire e a ripercorrere gli stessi errori dei precedenti. E non servirà ridurre le richieste al personale e neanche rinviare il conteggio e l’espulsione di lavoratori non licenziando ora e distribuendo cassa integrazione a pioggia.
Lo stato, il governo e le forze politiche sanno benissimo che non soltanto USB ma anche i maggiori esperti del settore affermano che l’Alitalia si salva soltanto affrontando e risolvendo le due condizioni che abbiamo posto: se servono soldi e se i privati non vogliono o non possono metterli lo deve fare lo stato. La soluzione si chiama nazionalizzazione e nessuno deve aver paura di questo processo economico che è previsto dall’art. 43 della Costituzione Italiana. Se il governo non vuole assumersi questa responsabilità e preferisce salvaguardare le banche e i loro interessi invece che attività produttive come l’Alitalia o l’Ilva, lo dica chiaramente e dica chiaramente che vuol far fallire queste aziende, magari non ora, ma dopo le elezioni politiche del prossimo anno. Il NO dei lavoratori, se passerà e se verrà riconosciuto come tale, aprirà uno scenario imperscrutabile e sicuramente preoccupante, ma è proprio per questo che l’assunzione di responsabilità non doveva essere scaricata sui lavoratori ma presa dai massimi livelli delle sigle sindacali. Come ha fatto USB, il confronto con i lavoratori i sindacati firmatari avrebbero dovuto farlo prima e non a giochi fatti. Chi ora dice che al NO corrisponde la liquidazione dell’Azienda, dice la sua verità, ma nasconde le soluzioni alternative che invece potrebbero essere realizzate E in queste ore frenetiche dove le minacce di fallimento rivolte ai lavoratori nel caso prevalesse il NO nella consultazione sono ormai pesantissime e provengono dal governo, dai partiti e da gran parte della stampa, vogliamo anche far chiarezza su che cosa significhi un NO all’accordo sottoscritto da Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Anpac e Anpav. Un NO non determina industrialmente un bel nulla perché altre sono le strategie economicamente ben più pesanti da mutare radicalmente in Alitalia. Perdere 500 milioni all’anno o perderne 400 industrialmente e finanziariamente è praticamente la stessa cosa ai fini del possibile rilancio dell’azienda. Come abbiamo già detto, si deve modificare la strategia ed investire sui voli intercontinentali da una parte e ristrutturare e regolare il mercato del trasporto aereo in Italia, finendola di finanziare le low-lost. Invece di precettare i lavoratori con ordinanze illegittime, consigliamo al Ministro Delrio di non invocare ideologicamente le low-cost e di pensare di più a sistema italiano dei trasporti. Ma c’è anche da chiarire che un eventuale ed evocato commissariamento dell’Azienda non farebbe felici neanche gli azionisti e il governo. Le banche perderebbero partecipazioni milionarie e finanziamenti, il governo, come ha detto lo stesso Ministro Calenda, spenderebbe più di un miliardo e Etihad oltre alle perdite azionarie, avrebbe pesanti ricadute sul sistema di alleanze. Senza contare poi che una eventuale liquidazione avrebbe costi sociali immensi nel paese e soprattutto nel Lazio e produrrebbe un confitto sociale senza precedenti.
Un commissariamento che non servirebbe quindi a nessuno degli attuali attori della vertenza e che invece viene utilizzato per spaventare i lavoratori e costringerli ad accettare quanto sottoscritto da sindacati complici ed azienda e a diventare così esecutori del proprio “suicidio”. C’è un’alternativa? Assolutamente SI! Sempre che non si scelga ideologicamente di non voler considerare l’intervento dello stato come sta facendo ora il governo. Noi ribadiamo che l’applicazione dell’art. 43 della Costituzione che prevede l’esproprio e la nazionalizzazione di aziende strategiche è un’ipotesi possibile ed auspicabile.
Ma se anche non si volesse arrivare alla nazionalizzazione sarebbe sufficiente un intervento diretto e pesante dello stato nel capitale e il controllo nella gestione dell’azienda, costringendo gli altri protagonisti, banche e Etihad, a fare altrettanto e ad investire quei capitali necessari all’acquisizione di molti aerei di lungo raggio e alla definizione di un progetto di reale sviluppo, in un contesto del trasporto aereo italiano che dovrebbe essere sottratto al monopolio di Ryanair definendo regole chiare e certe per tutti i vettori aerei. Questa è la soluzione possibile e credibile per rilanciare un’azienda importante e un settore produttivo strategico per l’economia dell’intero paese: altre vie non ci sono e chiedere ai lavoratori ulteriori, pesanti ed inutili sacrifici produrrà poco o nulla dal punto di vista economico, mentre aumenterà la disoccupazione e diminuirà il peso industriale del paese.