Non ho mai considerato l’elezione a Presidente del Senato (2° carica dello Stato) di Pietro Grasso una scelta felice, né ho avuto mai ragione di ricredermi per un giudizio che poteva risentire troppo del fulmineo passaggio di Grasso dalla Magistratura alla Politica e di un’elezione a Presidente dell’”ultimo arrivato” in Parlamento.
Grasso è stato coerente più con la politica di chi ne ha determinato la nomina nella sua nuova carriera, che dell’Istituzione che era stato così fortuitamente chiamato a presiedere.
Nella non breve vicenda della cosiddetta riforma costituzionale che, più che declassare il Senato ne riduceva il ruolo ad una sorta di caricatura e di messa “dietro la lavagna”, Grasso non mi pare che abbia mosso un dito per evitare lo scempio, per difendere almeno la dignità formale del Ramo del Parlamento di cui, bene o male era presidente. Né mi pare che abbia speso un po’ dell’autorità che dovrebbe competergli come giurista per evitare, almeno, che al danno della rottamazione si aggiungessero le beffe di formulazioni giuridicamente inconcepibili della “nuova” Costituzione. E’ finita come è finita, grazie alla saggezza del Popolo Italiano. Credo che Grasso, per l’atteggiamento sempre filogovernativo tenuto nelle discussioni in Senato, debba collocarsi tra i più esposti per le responsabilità assunte e, quindi, per la lezione ricevuta.
Riflettevo su tutto ciò leggendo di una intervista da lui rilasciata al Corriere della Sera. Non sulla riforma bocciata, ma sulle vicende palermitane di mafia, delle quali Grasso si era occupato prima di essere “trasferito” al Senato.
“Si intuisce” dichiara la Seconda Autorità dello Stato, “che la mafia possa essere stata il braccio armato di altri interessi…di entità deviate rispetto alle proprie funzioni istituzionali…”.
Un magistrato, specie se giudicante, dovrebbe andarci piano con le “intuizioni”. Il Presidente del Senato che abbia un minimo di coscienza e di rispetto per il proprio ruolo e le proprie funzioni, dovrebbe guardarsi bene dall’esternare “intuizioni” addirittura su “deviazioni” di istituzioni pubbliche. Ma non sembra che Grasso se ne renda conto. Ammette che “purtroppo però non è stato possibile trovare le prove”. In parole povere: ammetto di aver parlato a vanvera e di considerare le prove non ciò che è necessario per considerare vero un fatto e poterne parlare con il peso dell’autorità, ma l’”accessorio” della verità, tale perché “intuita”.
Si può dire che sia una tipica espressione dei concetti di giustizia “all’italiana”, giustizia di “lotta”, di parte e di partito.
E’ grave che un magistrato rompa la riservatezza che dovrebbe caratterizzarne il costume ed il ruolo per parlare in questi termini. Assai più grave è che così si esprima il Presidente del Senato che, si rifà a chi? ai pentiti: “molti pentiti”, aggiunge infatti, hanno fatto questo tipo di riflessioni (che certi omicidi eccellenti danneggiassero più che servissero gli interessi di “Cosa Nostra”) senza poter andare più in là”.
La coincidenza delle riflessioni della Seconda Autorità dello Stato con quelle dei Pentiti, cui essa si rifà, è significativa. Del resto, se i pentiti non sono “potuti andare più in là” il Sig. Presidente del Senato più in là c’è andato: con la sua intervista. E con una riprovevole disinvoltura.
Mauro Mellini