All’atto della formazione del Governo Renzi un contrasto con il Presidente Napolitano, che pure di quel Governo era da considerare il burattinaio, sorse sull’attribuzione del Ministro della Giustizia. Secondo la lista di Renzi, a Via Arenula doveva andare Nicola Gratteri, un P.M. di Reggio Calabria, noto per il suo oltranzismo giustizialista, fanatico assertore del dominio della “massomafia” (massoneria+mafia) nella vita economica e politica italiana, tendenzialmente intollerante degli “intralci” garantisti.
Napolitano si oppose. Pare per una questione formale: Gratteri non aveva chiesto l’aspettativa al C.S.M. per essere messo “fuori ruolo” come imponeva l’incarico di ministro.
Forse c’era dell’altro, anche se non era certo l’ostilità di Napolitano per quell’oltranzismo ad apparire come probabile causa del suo veto. Il contrasto ritardò di una giornata la pubblicazione della lista dei Ministri.
Alla Giustizia andò Orlando, che non sembrava avesse altro tiolo per ricoprire quella carica che quello della sua omonimia con l’altro Orlando, Vittorio Emanuele che l’aveva ricoperta quasi cento anni prima.
Ma Gratteri approdò eugualmente a Via Arenula. Si disse, maliziosamente, come “badante” del povero Orlando. In realtà gli fu affidata la presidenza di una Commissione Ministeriale “per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità organizzata”. Questa la denominazione secondo il decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 30 maggio 2014. Della Commissione poco o nulla si seppe. Oggi apprendiamo che essa (insediata il 30 luglio 2014) era composta di quindici membri, di cui due “componenti la segreteria tecnica”. Furono chiamati a farne parte nove magistrati (tra i quali nientemeno che Piercamillo Davigo!), due avvocati, dei quali uno, del Foro di Locri (RC) davvero non troppo noto, e per il resto di docenti titolari e non di cattedre, ma di discipline giuridiche anche diverse da quelle penalistiche. Per lo più di Milano. Uno di essi lasciò la Commissione già a novembre 2014. Un altro si limitò ad occuparsi della questione della prescrizione dei reati. Chi abbia proposto i nomi degli avvocati (due) non si sa. I lavori si sono conclusi il 31 dicembre 2014. Assai presto, e non certo bene.
Da allora il ponderoso elaborato della Commissione Gratteri (un “malloppo di 266 pagine) è rimasto nei cassetti del Ministero. Nulla se ne è saputo anche negli ambienti degli operatori del ramo.
Il silenzio (inusuale per Renzi che strombetta ogni suo ipotetico “storico evento”, ma che qui deve aver inteso puzza di bruciato, ora che deve affrontare il voto popolare), è stato rotto da una intervista proprio di Gratteri, probabilmente irritato dal silenzio su quel suo capolavoro, resa a “Il Fatto Quotidiano” e ripresa e commentata, con qualche grosso strafalcione, da “Il Dubbio” di Sansonetti (ex “Il Garantista”). In tale intervista Gratteri definisce il progetto elaborato dalla Commissione (cambiamento di ben 850 articoli tra Codice penale, di procedura e legge penitenziaria) una “rivoluzione giudiziaria”.
In realtà questo malloppo di modifiche non è affatto “rivoluzionario”. Il guaio è che non sono le “rivoluzioni” (o solo le rivoluzioni) a produrre disastri e sciagure.
Il progetto si muove sul solito binario delle “pezze colorate”, prive di corrispondenze e principi basilari chiari e puntualmente osservati, cosa che affligge la nostra legislazione da molti decenni a questa parte.
E va secondo una direttrice: quella di sopperire alle esigenze dei magistrati, di “alleggerire” il loro lavoro, di soddisfare le loro tendenze (ed anche certe manie).
C’è il solito aumento delle pene per la appartenenza ad “associazioni di stampo mafioso” (definite tali anche se composte di “tre o più partecipanti” e, magari, “disarmati”, perché se “armati”, almeno di una lupara, in quanto “armati c’è pure un’aggravante). Così la pena è per il solo fatto di essere un mafioso pari o superiore a quello per un omicidio.
Non è questa la sede di una descrizione che si pretenda completa dell’innovazione. Si dovrebbe dire, con apparente ossimoro: “ci sono le novità solite”, quelle che hanno ridotto la nostra Giustizia al miserevole e pericoloso stato in cui si trova.
Una serie di “novità” dirette ad allentare ulteriormente i vincoli “garantisti” del processo penale.
Aggettivi che scompaiono, ad esempio per giustificare intercettazioni: non più “gravi indizi”, ma semplici “indizi” (tanto i G.I.P. le rilasciano anche in bianco!!!). E così via.
Ma c’è un articolo che da solo racchiude tutta la pericolosità di un disegno autoritario e comporta la sopraffazione del potere giudiziario sul Parlamento e sull’intera classe politica.
E’ la proposta di modifica dell’art. 416 ter c.p. (scambio elettorale politico-mafioso). Attualmente il reato, punito con la reclusione da quattro a dieci anni è ascrivibile a chi “accetta la promessa di procurare voti con le modalità…” dell’intimidazione fondata sul vincolo associativo mafioso dei promittenti. Reato, dunque che presuppone un accordo del candidato (o chi per lui) con l’associazione mafiosa, e una promessa di un’incetta di voti esercitata con metodi mafiosi. Ma nella versione “riformata” della Commissione Gratteri basta che l’accettazione della promessa di procurare voti avvenga nei confronti di UN appartenente ad una associazione considerata mafiosa.
Sembra un nonnulla. Ma con il nuovo testo basta intrattenersi “con l’uomo sbagliato” di un paese o di un quartiere per essere incriminato.
E rischiare una pena non più “da quattro o dieci anni” (che non è poco…) ma “non inferiore a dieci anni. Reato che comporta l’arresto obbligatorio in flagranza, anche, quindi nei confronti dei Parlamentari!!!
Con tale “piccola” modifica tutto il sistema politico-parlamentare è messo alla mercé delle Procure. Il sogno dei vari Gratteri!! Se poi si tiene presente che un’associazione mafiosa può essere composta da “tre o più persone” ed essere, magari “disarmata”, si vede che ce n’è dunque quanto bastava per non farsi illusioni sull’effettiva portata liberticida di una tale riforma. Che, del resto, corrisponde ai radicati intendimenti “antipolitici” ed antiparlamentari di tanta parte della Magistratura.
Potremmo continuare a lungo. C’è solo da osservare che, commentando il fatto dell’esistenza di un progetto-giustizia di Gratteri, Sansonetti, Direttore de “Il Dubbio”, nell’articolo citato all’inizio, si domandava se è mai possibile che i magistrati, oltre che ad applicare le leggi, si mettano anche a progettarne delle nuove.
Sì, è possibile, e non per mero diletto. E’ possibile se un Presidente del Consiglio li incarica di fare ciò, mettendoli a capo di una Commissione composta in grande maggioranza di altri magistrati. Per impedirlo, di questo Sansonetti farà bene a rendersi conto, non c’è che da liberarsi di Presidenti del Consiglio con simili tendenze “riformatrici”.
Ne abbiamo la possibilità.
Da non perdere.
Mauro Mellini