Questo referendum sulle trivellazioni in mare è il classico referendum che non avrebbe dovuto farsi.
Anzitutto è assurdo voler decidere con referendum popolare una questione, in cui si intrecciano problemi tecnici, giuridici e macroeconomici, relativi ai termini di concessioni amministrative in un campo per noi “sperimentale”.
In secondo luogo chi ha promosso il referendum, con un intendimento genericamente (e, quindi, stoltamente) “ambientalista” lo ha fatto senza la minima capacità di accendere nel Paese un confronto neppure sui dati di più facile comparazione della questione. Un referendum, haimè, tipicamente “radicale”, di quelli dei “pacchetti” per i quali il partito radicale, allora esistente ma già degenerato in mera teatralità pseudopolitica (lo dico assumendomi tutte le responsabilità per il ritardo con il quale ho rotto i ponti con quella entità oramai senza senso) buttava sul tappeto una serie di questioni più o meno serie, non arrivando mai oltre la difesa dei “quesiti” avanti alla Corte Costituzionale e, quindi, ad una percettibile campagna “abrogazionista” avanti alla pubblica opinione. Che un referendum (ed a maggior ragione un “pacchetto”) una volta richiesto ed indetto dovesse “camminare con le proprie gambe”, cioè senza l’organizzazione (e lo studio serio) di una appropriata propaganda è stata, oltre che la manifestazione di un declino inarrestabile, verso la fine della ragione d’essere di un partito, quello della speranza del nuovo liberalismo italiano. E’ stato uno strumento infallibile per togliere credibilità e prospettive di giusta utilizzazione politica dell’istituto del referendum.
Anche l’effetto di “logoramento del sistema” D.C. con relativi satelliti, è presto scaduto e comunque, quando quel “sistema” è crollato, il partito radicale non c’era più a raccogliere onori ed oneri della lunga opera di opposizione.
Ma torniamo all’oggi. Con ogni probabilità il referendum sulle trivellazioni non raggiungerà il “quorum” del 50% dai votanti. Estendendosi così l’astensionismo a questa forma di democrazia diretta (si fa per dire) e rafforzando la credibilità politica della legge che si sarebbe voluta cancellare.
Una delle tante baggianate pseudoambientaliste. Ma questa volta l’effetto di questo improvvida iniziativa rischia di compromettere una diversa iniziativa, quella di un altro e diverso referendum, quello sulla (e centrale) devastazione vandalica Bosco-Renziana della Costituzione.
Non si tratta, in verità di un referendum buono e di uno cattivo secondo il mio (e di moltissimi altri) parere.
Si tratta di due istituti costituzionali, di due forme della espressione della volontà popolare assolutamente diversi.
Ma l’uguale denominazione rischia di estendere il discredito, il senso di inutilità del primo anche al secondo.
Diversamente dal referendum abrogativo delle leggi ordinanze richiesto da cinquecentomila cittadini, che ha effetti solo se vota almeno la metà degli elettori, il referendum “costituzionale” è una sorta di “prova d’appello” per le modifiche della Costituzione che in Parlamento siano “passate” senza un margine significativo. Quando la “richiesta” di esso è facoltà, oltre che di cinquecentomila cittadini, di cinque consigli regionali o o un quinto dei parlamentari di una delle Camere.
Il referendum “costituzionale” è quindi una fase, benché eventuale, di ogni procedimento di modifica della Costituzione.
Il referendum costituzionale “ha effetto” indipendentemente dal raggiungimento di un “quorum” di elettori votanti.
E’ chiaro, però, che, come in ogni competizione elettorale, l’afflusso alle urne sia condizione di vantaggio o di svantaggio di qualcuno dei contendenti.
In questo caso è chiaro che Renzi, il renzismo, il “partito della nazione”, i “salvatore della Patria” accorsi a trovarsi un posticino sul carro delle chiacchiere del rottamatore della (di ogni) Costituzione, avrebbero interesse ad un referendum in “tono minore” con un afflusso minimo di elettori (quelli della grande imbarcata clientelare “nazionaldemocratica”.
Già hanno provato a mettercisi di mezzo le “intelligenze” “originali” di qualche costituzionalista da salotto di periferia e di qualche reduce delle baggianate referendarie pannelliane, avanzavo l’ipotesi della possibilità e della opportunità di un “frazionamento” del referendum (illegittimo e politicamente demenziale).
E’ chiaro che l’esito deludente per tutti, il senso dell’inutilità e della frustrazione di parte dell’elettorato che è prevedibile segua il referendum antirivelatorio, potrà rischiare di compromettere il varare di “resistenza popolare” allo scempio (asinino, oltre che prevaricatore) della Costituzione che deve assumere il referendum di Ottobre.
Il ritardo con il quale le forze politiche (si fa per dire) che hanno proclamato la loro ostilità al vandalismo costituzionale renziano-etrusco è evidente. E sembra che fino a giugno (elezioni amministrative) almeno, esse non faranno nulla di concreto per prepararsi alla battaglia.
E’ da augurarsi che, intanto, chi ne ha gli strumenti, si faccia un dovere di sottolineare, per l’opinione pubblica, la differenza tra il referendum “fasullo” o quello e di essenziale importanza, purché non vi siano ricadute del flop dell’uno o sull’altro.
Ma non dovremmo essere noi a dare così elementari suggerimenti.
31.03.2016
Mauro Mellini