Il termine “Caporalato”, nella sua principale accezione, significa letteralmente “sistema illecito di reclutamento per lavori agricoli stagionali sottopagati”, ma col passare degli anni, esso è anche diventato sempre più sinonimo di morte, crudeltà senza limiti, indifferenza da parte di istituzioni e opinione pubblica.
Un Fenomeno che parte da lontano, diffuso in ogni parte del pianeta, e che ha trovato grande diffusione anche nel nostro paese, in diverse regioni del nord, ma soprattutto nel mezzogiorno.
In particolar modo la Puglia è salita agli onori della cronaca, come una triste realtà di questa piaga, testimone negli anni più di altre regioni dei crimini, delle malvagità, e delle vittime generate da esso.
Già nel 1980 si hanno notizie di vittime in qualche modo legate al fenomeno.
Nel Maggio di quell’anno infatti, un autobus di caporali strapieno di giovani donne (18 ragazze a bordo mentre di 9 persone massimo era la capienza possibile del mezzo) si scontra con un camion nelle campagne di Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi, causando la morte di tre giovani.
Anche nell’ultimo anno 2015 diverse sono state le morti di braccianti legate a questo barbaro sistema di lavoro. Il 20 Luglio i telegiornali raccontano della morte dell’operaio sudanese Abdullah Mohammed, 47 anni, sposato con due figli, stroncato da un infarto mentre lavorava alla raccolta dei pomodori nei campi di Nardò, provincia di Lecce, sotto 40°, in condizioni di lavoro che hanno subito destato più di un sospetto.
Non meno clamore ha suscitato nel mese di Agosto la triste vicenda di Paola Clemente, la cui storia riassume in poche righe tutta la condizione, la situazione di chi ha lavorato o lavora sotto il caporalato. Paola era di San Giorgio Jonico, provincia di Taranto, aveva 49 anni, tre figli e un marito che ogni sera aspettavano il suo ritorno dal lavoro. Si alzava prestissimo per andare tutti i giorni a lavorare all’acinellatura dell’uva nelle campagne di Andria, lontanissimo dal suo paese natale. Tornava a casa nel pomeriggio, alcune volte la sera. Tutto questo per meno di 30 euro al giorno.
Cosa sia successo davvero quel maledetto 13 Luglio nessuno lo sa.
Paola va al lavoro, e non torna più, nessuna spiegazione ufficiale all’inizio ai suoi parenti. Paola è morta nelle campagne, forse per un infarto. La magistratura apre un inchiesta, anche il sindacato si muove per fare chiarezza. Vengono indagati i caporali di Paola e la sua azienda, mentre la sua famiglia aspetta ancora di sapere la verità, su cosa sia davvero successo quel giorno.
Ci saranno poi nelle settimane successive le morti di Zaccaria, operaio tunisino di 52 anni, deceduto nelle campagne di Polignano a Mare, e di Arcangelo De Marco, 42 anni, concittadino di Paola Clemente, morto dopo un mese di coma all’ospedale di Potenza, dopo essere svenuto nelle campagne lucane del Metapontino.
Storie tristi e maledette, di chi ha perso la vita nei campi. La vita di un bracciante sotto il caporalato non fa distinzione, che tu abbia famiglia o no, che tu sia giovane o no. Sfruttato, massacrato di lavoro, rischiando la vita, per pochi euro. Turni di lavoro interminabili, sotto il sole della Puglia che spacca le pietre, e se vuoi bere o mangiare tutto ti viene scalato dalla tua misera paga. Operai ridotti a schiavi, questa è l’unica realtà.
E poi c’è un’altra storia, quella di chi ha la forza, il coraggio di dire che bisogna fermare tutto, che bisogna cambiare tutto, che bisogna bloccare per sempre questa barbara pratica di schiavitù dei braccianti. Quella di un ragazzo venuto da lontano, Doala, Cameroon, giunto in Italia per studiare Ingegneria, andato poi a lavorare alla raccolta dei pomodori per guadagnare qualcosa in più e pagarsi le spese dell’Università.
Colui che, durante l’ennesima giornata massacrante, in cui il caporale si fa ancora più cattivo e sfruttatore, decide di ribellarsi al potere sadico di questa gente. Masseria Boncuri, nelle campagne di Nardò, provincia di Lecce, estate 2011.
Ivan ci va su consiglio di un amico, ma quello che trova è davvero disarmante. Uno squallidissimo accampamento dove molti operai africani alloggiano (in condizioni igieniche allucinanti) per andare a lavorare nelle campagne circostanti. Si comincia alle 3 di mattino e si ritorna dai campi alle 5 del pomeriggio. 13 – 14 ore di lavoro ininterrotto per riempire di pomodori dei cassoni a 3,50 l’uno.
Quando i braccianti arrivano a chiedere un giorno 7 euro per cassone, i caporali si rifiutano, minacciano.
Scoppia la rivolta. Ivan si ammutina e con lui altre persone lo seguono quel giorno stesso. Affronta senza paura gli stessi caporali. Era il momento di dire basta. Adesso, nonostante le minacce, difende i diritti dei braccianti ed è considerato il simbolo della rivolta contro tale fenomeno. E una svolta, grazie all’opera di Ivan, sembra pian piano arrivare davvero. Telegiornali, trasmissioni televisive, quotidiani danno sempre più risalto a tale questione. Viene emanata proprio nelle settimane seguenti la legge 148 del 24 settembre 2011 che introduce nel nostro codice penale il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, punibile con la reclusione fino a 8 anni.
Si studiano nel frattempo anche norme destinate a colpire le aziende che utilizzano caporali. Arrivano anche gli arresti: nel Maggio 2012, nel corso dell’operazione SABR, i Carabinieri effettuano diversi arresti tra caporali e titolari d’impresa, colpendo un organizzazione criminale che operava tra la Campania e la Puglia. Ivan diventa il simbolo della protesta, dell’opposizione a un modo ingiusto di vivere, di lavorare.
Diventa il simbolo della rivolta. Scrive libri che documentano l’inferno dei campi, diventa sindacalista a difesa dei lavoratori sfruttati. Ciononostante, come dimostrano anche i fatti accaduti nell’ultimo anno 2015, il fenomeno è ancora lontano dall’essere debellato definitivamente, resta ancora molto diffuso in diverse zone della Puglia, e dell’intera Italia.
Mancano ancora controlli più efficaci che eliminino il problema alla fonte. Ma qualcosa almeno si è cominciato a fare, si è intrapresa finalmente una strada, per portare giustizia a tutti coloro che se la sono vista negare per tanto tempo.
Un bracciante non è un robot, ma un essere umano, e ogni essere umano ha diritto alla sua dignità, che non deve mai essere calpestata da nessuno.
Graziano Dipace