- Maria è na picciotta ca fa l’assistenti sociali, e na vota travagliava o manicomiu di Giurgenti quando ancora il manicomio di Agrigento esisteva e Domenico Modugno – bonarma – e l’allora giornalista dell’Espresso Gad Lerner l’avevano appena smirdiato. Ma di tutto questo i pazzi secondo me avvertirono ben poco – a parte l’opportunità di percepirsi addosso finalmente un buon odore che non fosse d’orina e d’altre odorosamente valide sostanze, nonché la non indifferente possibilità di varcare i cancelli e farsi una passiàta come Dio comanda al Viale della Vittoria.
L’apertura del manicomio alla città attraverso un centro sociale e manifestazioni varie, aveva in qualche modo agevolato i contatti cosiddetti umani tra i pazzi e tutto il resto. Per cui si cominciò ad incontrare più spesso i pazzi per la strada – e la gente, a dire il vero, vinta l’iniziale, naturale diffidenza, li mandava con meno preoccupazioni a fare in culo. Ma comunque.
Na matina Maria, ca facìa l’assistenti sociali o manicomiu di Giurgenti, trasì pi ghiri a travagliari, e si ntisi chiamari di Ciccinu, un foddi bellu grossu, biunniscu, nun tantu anzianu e mancu tantu pìcciulu, minzanu:
“Marì!”
“Ciau, Ciccinè, chi è?”, ci arrispunnì Maria.
“Chi ghiornu è, oj?”
“Aspè, Ciccinè, ca m’u scurdavu.”
Maria app’a taliàri pi forza nnu calandariu d’u calepinu ca tinìa nna borsa:
“Vintunu, Ciccinè.”
“Vintunu di chi, Marì?”
“Vintunu di lugliu, Ciccinè.”
“Ah, va beni, Marì. Ciau, Marì.”
E Maria si nni va. Mancu fa quattru passi e …
“Ah, Marì, Marì …”
“Chi buò, Ciccinè?”
“Quannu è u primu d’agustu?”
“O Beddamatri, u primu d’agustu? … M’e fari u cuntu, aspetta ca ci penzu – … tra ùnnici iorna, Ciccinè, va beni?”
“Va beni, va beni. Ciau, Marì.”
E Maria si nni va. I soliti quattru passi, ma stavota è idda ca si ferma, cusiitusa, di so spuntania vuluntà:
“Ciccinè, aspetta un momentu.”
“Chi è, Marì?”
“Ma chi c’è u primu d’agustu?”
“Comu, Marì? … Trasi a … gustu!”
- Mi sono abbastanza concentrato, in quanto uomo, in quanto persona – oltreché medico! – al modo in cui entro in relazione con altri uomini, con altre persone, senza nemmeno pormi il problema del giudizio diagnostico e sull’eventuale efficacia terapeutica o meno di tale atteggiamento più mirato, appunto, all’essere dell’altro piuttosto che alla sua malattia esclusivamente, almeno all’inizio.
Sono stato anche io tra quelli che, alla chiusura delle strutture manicomiali, hanno “accompagnato” i cosiddetti pazienti psichiatrici verso una crescita sociale che era stata loro inibita, atrofizzata dal manicomio. Mi ricordo notevoli esperienze all’ex manicomio di Agrigento con Franco Manno, psichiatra specializzatosi alla corte di Basaglia, con l’apertura al mondo dei padiglioni psichiatrici alla fine degli anni ’80, fino ad allora vere e proprie prigioni maleodoranti degli escrementi dei “pazzi”. Uno di questi padiglioni si chiamava “Villa Sorriso”, dentro cui collaboravo come medico esperto in laboratori di espressione corporea, a cui partecipavano, aldilà dei ruoli e dalle mansioni, tutti allo stesso modo, ognuno con le sue specificità di persona più o meno dotata di esperienza sociale: medici, infermieri, assistenti sociali, psicologi, cuochi, inservienti, volontari a vario titolo e pazzi, soprattutto pazzi. A volte anche qualche parente che finalmente si era fatto vivo! E si cercava di esaudire – noi con loro, ma soprattutto loro con noi – a volte anche una semplice richiesta di condivisione del tempo tra persone con pari dignità (meno che pari opportunità per l’ovvia ragione che i pazzi non erano affatto preparati ad “entrare” in società dopo decenni di dura segregazione): e si ballava, si cantava, si mettevano su scenette teatrali, si fumava, si mangiava insieme, e si cercava di occupare spazi esterni della città mai occupati o calpestati fino ad allora dai folli. E anche di aprire agli altri cittadini normalmente “fuori” i cancelli del manicomio e la possibilità di fruizione dei suoi spazi ormai resi frequentabili (tra l’altro situati in una zona paesaggisticamente incantevole della città, proprio a dominare la Valle dei Templi e il Mare africano!). Sono stato anche io tra quelli che per la prima volta si sono portati in giro queste persone, sfruttando il mio essere medico per proteggerle – incredibile a dirsi – dal pregiudizio e a volte dall’evidente maltrattamento psicologico della gente. Capitava per esempio di entrare in qualche bar – chissà cosa sembrava loro poter prendere un banalissimo caffè al bar – e puntualmente i gestori, soprattutto i primi tempi, li apostrofavano tentando di buttarli fuori, ed era lì che io intervenivo, presentandomi come medico e anzi a offrir loro proprio io il caffè. Spesso i gestori se ne uscivano con frasi di piccato stupore:
“Ma come, siete dottori e li fate andare in giro così?”
Era il minimo che potesse capitare. Anche se con l’andare del tempo i pazzi, ormai divenuti autonomi e “riconosciuti”, cominciavano a chiedere soldi in giro, e a rinfoltire quella schiera di anonimi e disadattati che abitano – affollano – i margini della cosiddetta società civile. Come i detenuti in un carcere – i quali tuttavia hanno perso una prerogativa che pure sanno di poter esercitare “fuori”: raccontarsi in una storia – ecco: questa prerogativa i pazzi del manicomio di Agrigento non l’avevano mai avuta, essendo stati e tuttora continuavano ad essere incapaci almeno di abbozzare una qualche parvenza simile alla storia di un essere umano dignitoso. È lì che ho cominciato a riflettere sul valore della narrazione, della capacità cioè da parte dei pazzi di raccontare qualcosa della loro vita e di poterlo inserire in una dimensione finalmente ascoltata, riconosciuta e condivisa. Ed era questo che facilitavamo, la possibilità non solo di raccontarla ma persino di scriverla, questa storia trasparente e inavvertita come l’aria stagnante della nostra estate.
- L’autista. Di luglio – quando le giornate diventano routinarie e saline di sudore, e i finestrini spalancati non bastano più a un placebico sollievo di correnti – una giornata come questa, così caldamente immobile, si ripropone con micidiale puntualità, come il cancello dell’ex manicomio di Girgenti che si apre automatico a un semplice avviso di clacson, perfettamente riconosciuto, smuovendo appena l’aria stagnante innocua e cigolando.
Strafottente annoiato quasi impacciato, solo un riflesso mi spinge il piede sull’acceleratore per un lungo viale alberato, fino allo spiazzale davanti il palazzo della DIREZIONE.
L’afa quaggiù sembra sopportabile. L’impeccabile facciata ocra non lascia trasparire alcun abbandono, nessuna sporca verità nascosta.
I pazzi sdraiati sul selciato, in bilico sui muretti di cemento fresco che delimitano le aiuole ancora erbose, disposti distesi sulle imminenti panchine con incredibile regolarità, non battono ciglio.
Un’ombra adeguata di alberi maestosi ripara e protegge il sorprendente parcheggio della mia Renòquattrobeigesabbia – di meglio non potevo sperare – millimetricamente incastrata tra una Centoventiseibiancarruginita e un’Alfa75milleottoI.E. grigioscurometallizzata fiammeggiante di nuovo.
Soltanto lo spazio di un posto macchina, in apparenza lasciato vuoto per caso o per preordinate volontà superiori, separa le vetture, il muso rivolto alla Valle, al magnifico luccichio giallognolo del tufo templare, dove il verde domina e circonda ogni cosa, possibile premonizione di un imminente disfacimento.
Si potrebbe pensare pure a un cordiale riavvicinamento, a una conveniente e pacifica convivenza dettata dalle circostanze, dalla necessità di placare le acque. E sebbene l’Alfa continui ad ostentare il suo lignaggio – la sua arrogante ricerca di consolidamenti – la Centoventiseibianca, umile e sommessa per un prevedibile destino, si garantisce comunque un sufficiente fresco all’ombra del piccolo virgulto che solo le compete. Nel mezzo, involontariamente collocato a proporre intese e mediazioni, io, autista per ogni occasione, controllo gli ingressi, nella solita contenuta attesa di scorgere qualcuno troppo impegnato a consolidarsi nel suo potere lavorativo per concedersi alla trasgressione di un pur minimo, insignificante anticipo.
Un vecchietto piegato su se stesso si avvicina e sembra accogliere la mia presenza come un’abituale novità. Uno stupore posticcio, quasi assente, o la sensazione di un individuo perso, senza identità, capelli biancogrigi igienicamente corti, giubbone neropesante a contatto della pelle flaccida e scura inondata di sudore acqueo, pantaloni neropesanti accolgono sulle cosce le frange di un lungo sciallone neropesante che scivola giù dal collo proteso, curioso – una ciabatta di velluto marrone e un mocassino nuovo, anch’esso marrone. Almeno un appaiamento di colore.
Come una curva neropesante, il vecchietto improvviso si incunea tra la Centoventiseibianca e la mia Renòquattrobeigesabbia, scegliendo deliberatamente di scartare il lato sicuramente più agevole dalla parte dell’Alfa. Strattoni, raggiunge finalmente lo specchietto retrovisore esterno della Centoventiseibianca e vi si guarda, accentuando con visibile sofferenza la curvatura della schiena.
Si coccola, si sorride, perlustra soddisfatto ogni angolo del viso, ogni ruga che pure accarezza delicato con le dita. Poi, difficili sfregamenti come un’abbozzata danza di trionfo lo portano a girarsi su se stesso e ancora a rannicchiarsi, stavolta, verso lo specchietto retrovisore della mia Renòquattrobeigesabbia. Lo stesso rito, la stessa incredibile soddisfazione, ma un sorriso più largo, duraturo, quasi ne avesse tratto maggior conferme. Ignorandomi, farfuglia, si disincastra, si muove ora con libertà, come ubriaco, e mugugna divertito girando intorno alla Centoventiseibianca.
D’un tratto si blocca, s’incupisce, perdendo repentino ogni sua conquistata giovialità, puntando lo sguardo sull’Alfa. I suoi lineamenti, ora, li vedo caricarsi di un terrore esagerato, e di una rabbia furiosa che non gli appartiene. Esita, prima di concedersi quattro passi esatti, misurati, fino a sedersi ai piedi dell’albero da cui parte l’ombra sulla Centoventiseibianca. Fissa gli occhi nella Valle inondata di sole. Nulla. Un dito frenetico nel naso. Ne tira fuori qualcosa che guarda e modella, e che scaglia improvviso contro la luce. Fermo, abbassa il capo zitto. Assolutamente nulla.