Vi starete chiedendo il senso di pubblicare un articolo che rievochi fatti consegnati – in maniera poco corretta – alla storia. L’esigenza potrebbe già nascere dal fatto stesso che spesso si mostra il meridione d’Italia come il peggior dei mali del nostro paese, ignorando la storia, l’invasione militare che dovette subire, i crimini commessi da “eroi” ai quali si deve l’unità del paese e l’impoverimento del Sud che, non tutti sanno, era il regno più ricco della penisola.
Ma non è questa la ragione che ci spinge a proporre l’articolo di Agostino Spataro che stigmatizza la figura di Francesco Crispi e le nefandezze delle quali si rese protagonista.
Se infatti la storia la scrivono i vincitori e pertanto la si può definire una testimonianza di parte, una responsabilità vera dei siciliani, quantomeno da parte di chi governava, esiste ed è innegabile: il tradimento!
Una responsabilità della quale un domani non lontano potremmo discutere ancora una volta – se e quando ce lo permetteranno- per i fatti odierni che vedono non solo le regioni del Sud (in particolare la Sicilia) ma l’intera nazione, tradita dai propri rappresentanti politici che svendono quotidianamente persino le speranze e la dignità dei cittadini che li hanno eletti.
- La strage dei fasci/di Agostino Spataro
- Francesco Crispi, fervente repubblicano mazziniano ma con un debole per la monarchia dei Savoia, ebbe una parte importante nelle lotte risorgimentali per l’unità d’Italia. Purtroppo, sul finire dell’800, divenne uno degli uomini di potere più discussi e autoritari, fino al punto, lui siciliano, di macchiarsi di un grave delitto politico: reprimere nel sangue, sulla base di ” prove” false costruite a tavolino, il movimento dei “Fasci dei lavoratori ” (siciliani), il primo sorto in Italia, solidale e organizzato, popolare e di sinistra, che avrebbe potuto innovare la vita economica e civile della Sicilia e cambiare il corso della storia italiana. Un comportamento ignobile di cui quasi nessuno parla e/o ne scrive. La mia modesta ricostruzione nel sottostante articolo.
In questa incerta vigilia di guerra, chissà quante “prove” si stanno fabbricando ai piani alti della politica e dei servizi segreti? Niente di nuovo sotto il sole. Fin dagli albori della storia, la mala politica ha fatto ricorso alla menzogna, alla contraffazione, ha imbastito intrighi e represso complotti immaginari, per liquidare oppositori o paesi ostili.
La “ragion di Stato” è stata l’ alibi per tante nefandezze. Una di queste sicuramente è stata la sanguinosa e illegale repressione del movimento dei Fasci dei lavoratori siciliani, decretata il 3 gennaio 1894, da Francesco Crispi, capo del regio Governo e ministro dell’ Interno, sulla base di “prove” false, costruite a tavolino dagli apparati polizieschi, che lo statista, nato a Ribera, ha sbattuto in faccia agli oppositori socialisti e radicali, nel corso degli infuocati dibattiti parlamentari che precedettero e seguirono la dichiarazione di “stato di assedio” della Sicilia. In pratica, il siciliano Crispi fece quello che il piemontese Giolitti, suo predecessore, si era rifiutato di fare: reprimere senza valide motivazioni un movimento popolare, di natura mutualistica e sindacale, reo soltanto di rivendicare nuovi patti agrari e più umane condizioni di lavoro nelle miniere.
Per Crispi e per gli agrari il movimento dei Fasci doveva risultare eversivo, portatore di un disegno insurrezionale mirante a scardinare l’ integrità territoriale del giovane Stato unitario, tale cioè da giustificare lo stato d’ assedio e l’ applicazione del codice penale militare, in forza del quale sospendere le libertà civili, arrestare, condannare, esiliare e “giustiziare” i dirigenti, compresi i deputati in carica. In pochi giorni, zelanti funzionari fornirono al governo le “prove” del grave complotto, ovvero due assurde montature: primo, il “Trattato internazionale di Bisacquino”, (che sarebbe stato sottoscritto dai una parte dai rappresentanti del governo francese e dello zar di Russia e dall’ altra parte dall’ onorevole De Felice Giuffrida, capo dei Fasci, dagli anarchici e da emissari del Vaticano), mirante a staccare la Sicilia dall’ Italia per porla sotto la protezione della Francia e della Russia; secondo, un “proclama insurrezionale” sequestrato ad un pastaio di Petralia Soprana, col quale s’ invitavano ad insorgere «gli operai, figli dei Vespri».
Per attuare il progetto repressivo fu incaricato il generale Morra di Lavriano, cui vennero conferiti pieni poteri e 60 mila soldati, il quale eseguì l’ incarico con una spietatezza inaudita, accanendosi contro masse inermi con metodi brutali e cruenti, che produssero 112 morti fra i lavoratori e una sola vittima fra le forze dell’ ordine. La repressione dei Fasci ha segnato la vicenda umana e politica dello statista riberese. Tuttavia, gli storici non sembra vi abbiano dato un peso adeguato: alcuni l’ hanno minimizzata, altri, addirittura, sottaciuta, forse a causa di un malinteso patriottismo sicilianista.
Massimo Ganci, nel suo libro “Il caso Crispi”, ne addebita la causa «all’ ombrosa emotività di Crispi, il quale vedeva trame e nemici laddove non esistevano». Per molti storici è una giustificazione riduttiva per motivare quella strage, che costò la vita a centinaia di lavoratori, di giovani e di donne, che mandò in carcere e in esilio migliaia di dirigenti sindacali, che sconquassò decine di comuni e che soffocò sul nascere il primo movimento emancipatore della Sicilia post-unitaria. Con la liquidazione dei Fasci l’ isola perderà tutti gli appuntamenti successivi con la storia del progresso sociale e civile dell’ Italia. Per rievocare questo avvenimento cruciale ci avvarremo dei resoconti parlamentari e di alcuni organi di stampa dell’ epoca, che descrivono le famose “prove” che supportarono il discorso di Crispi, del 28 febbraio 1894, alla Camera dei deputati. Ecco alcune citazioni storiche: «Le relazioni con lo straniero erano pure avviate; ma le definitive decisioni furono prese in un convegno tenuto in dicembre a Marsiglia.
Fu stabilita la insurrezione per la metà di febbraio, ma fortunatamente mancò in alcuni la virtù della pazienza. Si faceva correre la voce che una guerra sarebbe scoppiata nel 1894, si parlava dell’ invasione del Piemonte; di flotte vincitrici nel Mediterraneo, dell’ autonomia siciliana, e anche di un porto da darsi alla Russia, che assumerebbe la protezione dell’ isola nostra». Questo a proposito del “Trattato di Bisacquino”, mentre per denunciare la mancata insurrezione di Petralia Soprana venne letto il testo del proclama sequestrato al pastaio: «Operai! Figli del Vespro! Ancora dormite? Corriamo al carcere a liberare i fratelli. Morte al Re, agli impiegati. Abbasso le tasse. Fuoco al municipio e al casino dei civili.
Evviva il fascio dei lavoratori! Quando le campane della Matrice e del Salvatore suoneranno, assieme corriamo armati al castello, ché tutto è pronto per la libertà». Presto si scoprirà la ridicola infondatezza del famoso “Trattato internazionale di Bisacquino”, così chiamato non perché sottoscritto nel piccolo comune del palermitano, ma perché inventato, di sana pianta, dall’ ispettore napoletano Sessi, delegato di pubblica sicurezza a Bisacquino. La questione fu portata in parlamento anche da Felice Cavallotti il quale, nella seduta del 23 aprile 1894, dopo aver ricordato ad un imbarazzato capo del governo, «quando Francesco Crispi, nel 1877, a proposito dello stato d’ assedio in Sicilia, denunziava i falsi rapporti dei questori e dei prefetti», ironizza sul «famoso trattato fra l’ imperatore di Russia, il presidente della Repubblica francese e l’ onorevole De Felice (che, di lì a poco, a causa di questo fantomatico trattato verrà condannato a 18 anni di carcere ndr)». Ancora più bizzarra è la storia del proclama insurrezionale di Petralia Soprana che Crispi, in polemica con un incredulo Camillo Prampolini, assicurò essere autentico e “firmatissimo”. Fu Napoleone Colajanni, in un articolo dal titolo “Un romanzo inverosimile”, pubblicato il 7 marzo 1984 sul “Il Secolo” di Milano, a sbugiardare il capo del governo, denunciando l’ artificiosità di detto proclama, frutto della fantasia malefica, della vendetta d’ amore del vice cancelliere della locale pretura «perdutamente innamorato di una bella donna moglie di un pastaio. La donna amata non dette ascolto alle disoneste proposte del vice cancelliere e questi, sempre più innamorato e adontato dalle ripulse, le scrisse che, se non consentiva di dargli almeno un bacio, nella qualità di vice cancelliere, avrebbe fatto nascere un diavolo nella sua casa!». Di fronte all’ ulteriore rifiuto il funzionario «passò a vendicarsi nel modo più scellerato.
Scrisse precisamente il manifesto firmatissimo impostandolo nella vicina Petralia Sottana all’ indirizzo del marito di quella povera donna che aveva respinto le sue laide proposte e scrisse due lettere anonime: una al delegato di Pubblica sicurezza, l’ altra al brigadiere dei Reali carabinieri, denunziando a loro l’ odiato marito come un anarchico che aveva ricevuto del denaro e della dinamite per promuovere la rivoluzione e additò in prova delle sue asserzioni il fatto che per mezzo della posta doveva arrivargli un manifesto sovversivo».
L’ ignaro pastaio fu arrestato sulla base d’ imputazioni gravissime «allora la povera moglie vinse ogni riserbo e denunziò il vice cancelliere; questi interrogato confessò il tutto allegando a propria scusa l’ aberrazione mentale cagionatagli da una fatale passione!». «E con documenti di questo genere – conclude il Colajanni – si è imbastito un processo scellerato, mostruoso». Che figura per il grande statista di Ribera.
AGOSTINO SPATARO