Diciamocela tutta, la Romania continua a mostrare i limiti di un sistema politico che è ben lontano da quei concetti di trasparenza e civiltà tipici di un paese che può dirsi democratico.
Se il mese di dicembre del 1989 vide la rivolta di Timisoara che portò alla caduta di Ceausescu ed alla condanna a morte del dittatore, il novembre del 2014 rappresenta un’altra pietra miliare nella storia di un paese che ancora oggi vive in uno stato di degrado nel quale la menzogna, la corruzione e la repressione delle libertà individuali continuano a caratterizzare la vita pubblica e politica di un paese che pur facendo parte dell’Unione Europea viene governato alla stregua delle cosiddette repubbliche delle banane sudamericane.
Le ultime elezioni hanno mostrato il vero volto di un paese vittima di fenomeni clientelari, della dilagante corruzione e della scarsa libertà di opinione e informazione.
Dopo una campagna elettorale caratterizzata da un clima avvelenato dalle accuse tra candidati, a dare l’esatta dimensione di quello che è il fallimento di una presunta democrazia sono stati gli scontri di piazza tra forze dell’ordine e manifestanti che chiedevano una maggiore trasparenza delle operazioni di voto.
Nel corso del primo turno delle elezioni, tenutesi il 2 novembre, nonostante l’affluenza alle urne fosse stata in generale molto bassa, molti romeni a causa della scarsità dei seggi elettorali non erano riusciti a votare nei Paesi esteri in cui sono residenti.
Pochi seggi per più di tre milioni e mezzo di elettori che hanno visto come conseguenza le manifestazioni di protesta da parte di migliaia di cittadini che in Romania hanno chiesto il diritto al voto per i romeni che vivono all’estero e che grazie all’incapacità, o forse alla malafede, di chi rappresenta il Paese, ha reso quasi impossibile l’espletamento delle operazioni elettorali.
Code chilometriche dinanzi consolati ed ambasciate che hanno impedito a migliaia di cittadini residenti all’estero di poter esprimere le proprie preferenze.
A completare un quadro disarmante, gli interventi da parte delle forze dell’ordine con ampio uso di lacrimogeni e cariche di polizia per disperdere la folla, spesso su richiesta degli stessi diplomatici romeni che, anziché garantire un diritto fondamentale di ogni democrazia che si possa ritener tale, hanno abbassato il capo dinanzi a quel potere che evidentemente garantisce loro la poltrona alla quale restano aggrappati a costo di svendere la propria dignità personale, istituzionale e politica.
Un quadro sconcertante se si pensa che la Romania, a 25 anni di distanza dalla sanguinaria rivolta che portò alla caduta di Ceausescu perché fosse instaurato un regime democratico e migliorassero le condizioni economiche del Paese, si ritrova a essere il fanalino di coda dell’UE (secondo paese più povero) e con una democrazia sempre più messa in discussione da una scarsa trasparenza del voto, in particolare quello estero che quest’anno ha inspiegabilmente visto un numero di seggi inferiore a quello del 2009.
Una situazione scandalosa che ha portato a dimissioni e nomine di più ministri degli esteri (tre in un solo mese) che danno l’esatta dimensione di quanto squallida e precaria sia la situazione politica della nazione.
Ma bastano le dimissioni dei ministri a garantire una democrazia? Certamente no, se consideriamo il fatto che i diplomatici delle sedi estere in risposta alle esigenze dei cittadini che chiedevano venisse rispettato un loro diritto, anziché sollecitare il governo ad attuare le promesse fatte durante le tornate elettorali in merito alla predisposizione di maggiore personale per velocizzare le procedure di voto, hanno invocato l’intervento della forza pubblica contro i propri concittadini.
Un comportamento che seppur incruento ricorda l’errore di Ceausescu quando, in risposta alla piazza, ordinò la repressione più violenta ed impose la legge marziale. Cambiano i periodi storici, i governi e i colori politici degli stessi ma non cambiano le tirannie che, seppure con metodi diversi, annullano qualsiasi velleità di democrazia da parte dei popoli.
Se il buongiorno si vede dal mattino, le elezioni in Romania, a prescindere dal loro esito, ci danno l’esatta indicazione di quello che è la democrazia di questo paese del quale buona parte corpo diplomatico, più che rappresentare i propri connazionali all’estero, veste i panni degli sgherri del potere di turno.
E se il mondo occidentale isolò Ceausescu che aveva ridotto la Romania in uno stato di degrado tale da provocare quella ribellione che pose fine alla sua dittatura in un bagno di sangue, c’è da chiedersi come può oggi l’Europa assistere in silenzio alle violazioni dei principi democratici commesse dal governo romeno con la complicità di alcuni diplomatici, mettendo a servizio di questi ultimi le proprie forze dell’ordine e impegnandole nella repressione delle manifestazioni da parte di cittadini che chiedono soltanto una maggiore trasparenza del voto e di poter esercitare il proprio diritto costituzionale.
Cosa ha di diverso la Romania di oggi da quella di Ceausescu se uno dei principi fondamentali di ogni democrazia viene così apertamente violato con la complicità dei paesi membri dell’UE?
Bruxelles accetterà che si possano eliminare, seppur forse non in maniera violenta, coloro i quali hanno anelato alla salvaguardia di questi principi?
È una strana politica quella delle democrazie occidentali sempre pronte ad isolare un despota quando questi non è più comodo, salvo poi prestare i propri servizi d’ordine pubblico rispondendo alla chiamata di burocrati di nuove e vecchie tirannie perché venga impedita un’elezione democratica in un paese dove il mondo politico subisce qualche scossone, come nel caso delle dimissioni dei ministri, ma l’apparato burocratico ne resta indenne lasciando presagire futuri regolamenti di conti che riportano alla memoria ben più cruente defezioni…
Mentre le pagine dei social network si riempiono di messaggi di protesta da parte dei cittadini romeni ai quali è stato negato il diritto al voto nelle più grandi città europee come Londra, Parigi e Vienna, i primi boatos in merito a possibili defezioni di personaggi ritenuti scomodi non si fanno attendere.
Come la mafia, anche le moderne dittature cambiano pelle e non vorremmo dover scoprire che dietro quei boatos, apparentemente frutto di malumori, debba celarsi una verità che, seppur con metodi diversi, sia preludio all’eliminazione di presunti nemici utilizzando sgherri del potere che ne determinino la morte civile, evitando di ricorrere ai sistemi alla Pol Pot che oggi finirebbero con il creare clamore e suscitare indignazione. Contesti dai quali comunque la storia della Romania non può certo dirsi avulsa.
Una visione delle nuove dittature che Alexis De Tocqueville nel suo ‘De la démocratie en Amerique’ aveva già anticipato nel lontano 1840:
“Non è raro allora vedere sulla vasta scena del mondo delle moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all’universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa: cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi; tanto che non si può fare a meno di rimanere stupefatti nel vedere in che mani indegne e deboli possa cadere un grande popolo”.
Gian Joseph Morici