Non sempre si impara in occasioni programmate. A volte lo si fa per furto. Carpisci le voci di un dialogo e immediatamente lo scremi tirando fuori il meglio.
– Non c’è niente di peggio che essere colpiti proprio in quello che sai fare meglio-
lo diceva una figlia, del padre, che moriva per un tumore al cervello. Era un insegnante e un amante della lettura, proprio il suo strumento principale, il suo ferro del mestiere, lo aveva tradito.
Il tumore a volte si chiama realtà, o parte del mondo dove nasci per sorte. Come quella rappresentata dal fotografo Curdo Jamal Penjweny.
Si chiama “I wish”, una mostra in cui vengono rappresentati i sogni infranti di adulti che da bambini lottavano per diventare qualcuno in territori martoriati da conflitti. Calciatore, nuotatrice, modella, tennista.
Il tumore che li ha bloccati si chiama in mille modi, guerra, mina antiuomo, pallottola, sorte, paese disgraziato.
Non c’è nulla di peggio di un tumore che colpisce nella parte in cui più sei bravo.
Nulla di peggio che un tumore voluto dall’uomo. O dal nascere dalla parte sbagliata di un letto sempre meno accogliente, il mondo.
Nulla di peggio di quel rumore sordo, di vaso andato in pezzi, di schegge che schizzano e si conficcano nella carne, faranno male per sempre.
Il tumore del rumore, di un sogno andato in pezzi.