Il colore dell’iride ricorda acqua, per questo, forse, stringe di più lo sguardo, quasi a contenerne le onde. Occhi colore del mare, occhi con la sua forza, di idee, di vita, di viaggi. Un mare pericoloso, perchè se non controllato è capace di ghermire i ricordi più profondi.
Quelli che Nino non vuole vedano il sole.
Sono i ricordi con le cicatrici, fanno male e a loro modo sono belli, perchè sono tessuto rimarginato a pelle, sono segni. Cartelli emotivi del tempo che passa.
Si avvicina, con voglia di conoscere filtrando. Non incrocia subito gli occhi di chi vorrebbe parlargli. Preferisce affidarsi a segnali più di famiglia, si mette parlare con sua figlia, nel frattempo però parla con me, mi porge le parole facendole passare da labbra non sue.
La strada che vorrei percorrere è quella che mi riporta allo scrittore francese Maupassant. Lineare, percorrere una storia su un piano descrittivo. Vorrei parlare con lui della sua vita, di un frammento importante, un pezzo vitreo di esistenza che ormai gli resta conficcato, non lo rimuove per paura che faccia male, lo tiene e fa male. Ma meno. Come quelle pallottole con cui si impara a convivere.
Nino Smeraldi è un pezzo della storia della musica in Italia.
Il fondatore delle Orme, il gruppo musicale della beat generation. Avevano le stimmate. Una sonorità e un talento che probabilmente spostavano in avanti. Avessero cantato in inglese non li avrebbe più scalfiti nemmeno il tempo.
Il loro primo album iniziava con un messaggio in segreteria telefonica.
“Pronto? Ciao, siamo Le Orme e visto che stai ascoltando il nostro 33 giri vorremmo aiutarti a capirlo… aiutarti a capirlo… aiutarti a capirlo…”
Le innovazioni erano molto più di quanto si pensasse, intanto erano in tre . Per I gruppi dell’epoca significava sostanzialmente avere tanto lavoro e competenza, oltre che talento.
Con tre elementi adesso si può fare un concerto pieno, grazie all’elettronica, allora era follia.
Lui era la vena di questa follia. La stessa che lo portò a lasciare tutto il progetto musicale dopo poco tempo. Poco ma non abbastanza da non essere mai dimenticato dagli aficionados.
Le ragioni vere si affondano nella memoria e si annegano a forza nel cuore di Nino. Non si è mai voluto analizzare troppo sull’argomento. Se si prova a capire le sue risposte sono nello sguardo. Chiude ancora di più a fessura i suoi occhi. Si ha l’impressione che a volte sia perchè faccia male, a volte per pescare un orgoglio che lo fa rinfrancare, di aver scelto giusto.
Per chi vuol parlare con lui del suo passato si consuma una Fata Morgana, un’ illusione.
Nino risponde alle domande portandoti nelle sue strade, gioca in casa. Trova sempre la risposta meno ovvia. Ma non per ingenuità. Sembra abbia elaborato la risposta che ti aspetti, sa che vuoi quella, sa dove vuoi arrivare e ti scarica a una fermata dopo. Devi tornare indietro.
Descrive I suoi viaggi, bellissimi, che lo hanno arricchito, lo fa con molta più precisione di quanto già sappiano fare le sue bellissime fotografie. Perchè Nino oltre all’arte visionaria della musica, ha l’arte visiva di saper fare foto che immergono nel luogo.
Ti racconta di come abbia sfiorato alcune sofferenze con la fortuna di chi sa che non gli appartengono, ma fanno male.
È in tutto ciò che ti dice, non è mai assente.
È quando credo che ormai non mi parlerà più di una parte di sè che volevo conoscere che invece mi riporta esattamente lì dove siamo seduti.
Non racconta del suo dolore, o della sua scelta, come la si vuol chiamare, ma degli aneddoti che gli girano intorno.
Come quando ringraziò Lucio Battisti, per la canzone “balla Linda”, il nome con cui aveva chiamato sua figlia.
Come quando ti dice che Le Orme erano considerate un gruppo di punta insieme ai New Trolls, quando erano insieme alle manifestazioni canore, iniziavano gli screzi per chi dovesse cantare per ultimo, chi chiudeva lo spettacolo infatti era il gruppo più importante.
Ti racconta che i cantautori rispetto ai gruppi erano un mondo a parte, viaggiavano da soli, sembravano vivere per sè stessi. Tanto che Pino Donaggio nemmeno li degnò di uno sguardo quando si presentarono come suoi conterranei, Veneziani.
I suoi occhi ora danno fiducia, ha capito che in questo viaggio mai mi sarei permesso di guidare io.
Parla dei suoi nuovi progetti, non stranamente ancora attaccati al suo primo e unico amore: la musica.
Ha un album pronto, 14 pezzi, si intitola “Dalla mia finestra”. Una Venezia raccontata e sezionata criticamente da un Veneziano che la ama e la vede soffrire. Lo ha registrato in casa, in home recording, sta cercando chi glielo produca.
Anche solo il suo nome deve ancora dir qualcosa a chi mastica di musica. Mi dice che la grandezza di quello che hanno fatto Le Orme lo si capisce dal fatto che si sono fatti conoscere fuori dai circuiti musicali che bisognava frequentare all’epoca, Roma o Milano.
La discussione è breve, mi lascia la sensazione che io sia stato condotto per mano per la città senza poter dire nulla, come se non mi sapessi orientare e avessi bisogno di entrare in un mondo che non conosco a fondo. Un giorno mi hanno spiegato che solo chi si intende davvero di un argomento può accennarne senza approfondire. Perchè se gli si fa una domanda risponde comunque con esperienza enorme.
I suoi occhi si fidano, si stringono per un sorriso, non più per una esplorazione.
Mi lascia con una considerazione che sembra più profonda di quanto lui abilmente voglia farla apparire.
– Un tempo, quando ero più giovane, facendo musica lasciavo che l’improvvisazione venisse dopo un lavoro organizzato, dopo il compito diligente. Prima la ragione poi il genio. Ora ho capito che si deve improvvisare, sempre, non ci sono elementi sufficienti per avere abbastanza competenza in nulla, bisogna lasciarsi andare, nella vita e nella musica-.