Appena il governo ha incassato la fiducia dal parlamento, Enrico Letta è volato alla volta di Berlino, Parigi e Bruxelles per incontrare rispettivamente il cancelliere Tedesco Angela Merkel, il presidente della Repubblica Francese François Hollande e il presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso.
Il premier italiano è andato per discutere di Europa, degli impegni stringenti che il governo italiano ha preso con l’Unione europea, nonché dei conti pubblici italiani.
Degli incontri dai quali Letta avrebbe incassato fiducia e credibilità da parte dei colleghi europei, ma che tuttavia non sciolgono le riserve, agli occhi degli stessi italiani, sulla effettiva forza di questo nuovo esecutivo – partorito da Napolitano, targato Letta e pesantemente dipendente dagli umori berlusconiani – nel poter rispettare impegni presi e promesse fatte. Tante infatti sono state le promesse e gli impegni presi che Letta – col suo discorso che ha preceduto la fiducia delle camere – ha messo sull’altare sacrificale dei sogni e delle attese degli italiani: dallo stop all’IMU sulla prima casa a giugno, alla rinuncia dell’aumento dell’Iva, passando poi come per magia dall’abolizione al finanziamento pubblico ai partiti alla soppressione delle province, senza mancare di promettere una legge elettorale diversa dal Porcellum. Il tutto, incredibilmente, sarà fatto entro un anno e mezzo. Diciotto mesi – ha dichiarato Letta – per capire se c’è l’opportunità per maggioranza e opposizione di fare o meno riforme condivise.
Nel tour europeo lettiano la parola d’ordine è stata “Consolidare i conti e favorire la crescita”. azioni che per gli attori in gioco – la meno convinta probabilmente era la Merkel – non sarebbero in antitesi se l’Europa favorisse gli investimenti privati per far ripartire l’economia. Dai discorsi nordeuropei tenuti dal presidente del Consiglio italiano sarà stato difficoltoso per l’uditorio di turno comprendere con quali risorse l’Italia, in un clima di pax interna dove tutte le più incredibili e mirabolanti promesse elettorali dovranno essere mantenute fosse altro per non dispiacere l’amico di grande coalizione, manterrà gli impegni presi con l’Europa.
“Confermo che manterremo gli impegni e tutto starà dentro a quegli impegni. I modi e le forme con cui troveremo le risorse è roba di casa nostra e non devo spiegarla a nessuno”, questa la risposta risentita di Enrico Letta a un giornalista italiano che nel corso della conferenza tedesca (rovinandogli la festa della prima uscita ufficiale) gli aveva chiesto di spiegare dove avrebbe trovato i soldi per attuare quanto annunciato nei discorsi sulla fiducia alle Camere. Basterebbe questa semplice non risposta per comprendere quale sia il grado di tensione all’interno del governo, con un premier che non deve spiegare a nessuno la “roba di casa nostra”, salvo poi cercare di convincere gli italiani che ci vuole più Europa o, meglio, che l’Italia e l’Europa cammineranno assieme per uscire dalla crisi. Nessun chiarimento da Letta al presidente della Commissione europea su come l’Italia intenderà rispettare il tetto del 3% per il disavanzo per l’anno in corso e i due successivi mentre, José Manuel Barroso non ha mancato di chiedere “più sforzi per la crescita, con urgenza a giugno di un piano di lotta contro la disoccupazione giovanile“.
Nel rispetto istituzionale il presidente Barroso si è poi complimentato con il premier italiano, riconoscendogli alto senso di responsabilità per la capacità di aver portato al dialogo nella formazione del governo forze politiche divergenti. Eppure se la politica e i politici ridono degli effimeri successi conseguiti per il bene del paese, gli italiani piangono e piangono lacrime di stenti e sangue a causa di una crisi che sembra lontanissima dal volerci abbandonare.
Tutti si saranno accorti che il nuovo governo è fin troppo dipendente da Berlusconi che può decidere di staccare la spina in qualsiasi momento minacciando un ritorno alle urne qualora i processi e i magistrati riprendessero ad incalzarlo oppure qualcuno decidesse di mettere i bastoni tra le ruote sia ai suoi interessi personali che alla crescita del consenso elettorale del PDL, il partito di plastica che l‘elettorato identifica con la sua persona.
Una situazione politica di cui nessuno ha di che rallegrarsi, uno scacchiere politico verosimilmente già predeterminato in un gioco delle parti interpretato a regola d’arte da artisti e buffoni, di ampia eco internazionale, dell’italica politica.
Non sorprende sapere dall’ex portavoce del Quirinale che “Napolitano non resterà sette anni, no. Il tempo di vedere le riforme avviate e poi lascerà”.
“Tre anni?” – gli era stato chiesto dal conduttore de la Zanzara, la nota trasmissione radiofonica in onda su Radio24. “Speriamo molto prima – aveva replicato Pasquale Cascella”.
In questo clima politico e sociale incandescente, sorprendono ancora meno le parole di Stefano Rodotà che afferma di non essere “assolutamente disponibile a guidare la Convenzione per le riforme istituzionali, un organismo che rappresenta un rischiosissimo attacco ai principi costituzionali”. Secondo Rodotà, infatti, bisognerebbe rimettere al centro dell’attenzione il Parlamento, poiché “non è vero che il Parlamento non è in grado di fare riforme istituzionali”. Già, ma allora perché in un momento di crisi politico-istituzionale, sociale ed economica come quello attuale i protagonisti “dell’inciucio” si sono intestarditi nel dare vita a una Convenzione per le riforme?
Fanno invece rabbrividire le parole di Silvio Berlusconi che aveva dichiarato, relativamente alla Convenzione per le riforme, “sarò io a guidarla”. La voglia di Berlusconi di presiederla, visto lo scenario politico venutosi a generare, agli elettori del PD più che una provocazione deve essere sembrato un pericoloso diktat dal quale probabilmente nessuno potrà salvarci.
Totò Castellana