La mia vita negli ultimi anni si era veramente inasprita. Il tempo aveva continuato a contrarsi, per cui il giorno e la notte sembravano attimi intrecciati tra di loro. Il lavoro diventava più difficile e il mio corpo più pesante. Per sfuggire immaginavo spesso di avere una bicicletta e correre per una strada bianca in mezzo alle distese incolte della mia infanzia. Allora sorridevo, anche se c’era freddo e pioggia, sorridevo, immaginando la mia maglietta turchese che si gonfiava al vento, mentre pedalavo incontro ad un sole che non era mai abbastanza caldo. Non so se sia corretto cominciare a classificare porzioni della propria vita. Non l’ho mai fatto, prima d’ora. Ma ci sono stati dei periodi totalmente grigi e altri indubbiamente fastosi. Quelli sulla bici appartenevano al fasto, al corpo in movimento, ai pensieri gagliardi, muscolosi. Ci sono stati dei riquadri di tempo in cui dovevi avvicinarti e avvicinarti per vedere bene il colore, e una volta lì non potevi più ritrarti. Era la vita peggiore, quel rosso buio vicino alla notte. Ma insomma, non era stata una gran cosa, come si va dicendo, era una piccola cosa, non mediocre a saperla vedere. E anche il movimento, non era stato sempre uguale, e comunque ad un certo punto avevo imparato a non tornare indietro, ma a sfracellarmi in avanti. Per questo non mi piaceva fare il punto della situazione. Tanto non c’era niente da puntualizzare, e anche fosse, niente sarebbe cambiato, era veramente uno stadio di ineluttabilità quello che mi aveva preso e amen. Mi ero anche impoverita. Più si complicavano i miei pensieri, più si assottigliava il garbo nelle relazioni. E nemmeno mi riconoscevo tanto allo specchio, sapevo che sarebbe successo. Invecchiavo, era una novità anche questa, anche se tutto si era preparato, in ere stratificate nel mio organismo, e nel diverso assetto che i miei sensi davano al mondo. Era un tempo nuovo, più corto, più intenso se mai fosse possibile, un tempo in cui cambiare significava diventare, essere, nudi. Non mi andavo a guardare le foto perché tanta gente non c’era più e loro sorridevano ed io sapevo la loro storia. Così, un mattino povero come gli altri, fatto di latte e pane, avevo deciso di fare due conti, da intrecciare con i conti veri, quelli dei soldi. Le stanze vuote, così abitate da intenzioni, parlare con chi non c’è, parlare a voce alta di fatti, fatti che distraggano l’anima, le mani vuote, che sembra così patetico a dirlo e infatti lo è, una spolveratina in giro, sui mobili muti, neanche poter cantare, perché la voce è andata come l’ex punto vita. Impicciarsi sui conti, e capire che neanche questa volta è quella buona. Fregarsene. Buttarsi sotto la doccia senza guardarsi. C’è stato un tempo che guardarsi era un piacere. Finire i compiti, la lenta manutenzione di un corpo che sfugge, che si sottrae alla cura, che si rende faticoso. Reagire, con la dura disciplina, all’affanno che viene a legarsi i lacci delle scarpe. E uscire, facendo una promessa alla casa vuota, alle luci spente, al sole che non c’è e non filtra dalle imposte. Tornerò, dovessi togliere anche il pane dal latte, tornerò con la bicicletta, così tornerà quel che deve venire. E dimenticare di chiudere a chiave. Finalmente. Non c’è che una libertà, ed è quella dalla paura. Di perdere. E io non ho più paura perché ho già perso. E me ne vado sulle mie gambe dal biciclettaio. C’è quest’aria fredda che non mi permette di abbattermi, né di consolarmi. E c’è il gatto, qui in cortile. Il gatto bianco. Mi avvio verso le vetrine di cristallo, e le scocche leggere, super leggere, quelle che voglio io, con le ruote grandi e il cambio, una bicicletta che non ho mai avuto. Ma non ci siamo, non ci siamo. Non ci compro neanche una mountan bike da ragazzino con i soldi che ho. Me ne esco a testa bassa e mi infilo nel supermercato. Le bici sono lì, grossolane, con nomi disastrosi. Ma io la compro la meno peggio di tutte, perché tempo non c’è più per pensare ancora e tornare a casa con le meditazioni della rinuncia. Vai, metti il culo sul sellino e ricordati che domani sarà come averci un chiodo per chiappa. Tu hai la ruggine, la ruggine nelle giunture, ti sembra di vederla, la nobile rossa che stride dentro ai polpacci, mentre affondi inelegantemente sui pedali e risenti il giro della catena, l’odore del grasso, e intanto soffia un vento di tramontana che arriccia le nuvole e le scaraventa da qualche parte. Il cielo si allarga sopra una testa arruffata, che arranca in bici, la mia bici, la bici della nuova era, grido, tirandomi dritta sulla canna e sollevando le mani dal manubrio. Infine provo le leve dei freni, la dinamo, e non mi accorgo che con il carter becco di striscio il gatto, che urla di dolore e scappa, ma dopo due salti scivola su un fianco e rimane a terra. La bici cade tra le mie gambe. Non mi sembra vero, non mi sembra vero. Mi avvicino al gatto e non so che fare. Mi piego ad accarezzarlo e lui respira e apre gli occhi. Si tira su e si lecca la coscia scorticata. Si lascia prendere in braccio e portare casa. Lo disinfetto e lui sta buono, comincia a ronfare ed è piacevole. Lascio che giri per casa e scendo a prendermi su la bici. Ci sono dei periodi neri, ed altri verde seppia. Alcuni vengono riempiti da perdite, altri sono ricolmi di cicatrici, ricami, segni particolari che faranno di noi quel che siamo già. Mentre divento migliore sulla bici, mi compro il casco e ci infilo la mia capoccia piena di capelli e di tristezze amiche, le giornate si scaldano e il sole ci frequenta. Al mattino, di pane e latte, si aggiunge il solito quadro di balcone con ringhiera, chioma di pinus pinea. E poi corpo di gatto all’erta. Segna una nuova era. L’era del gatto bianco.