È come un condominio. Un cerchio di esistenze dove nessuno si fa i fatti suoi. Specie uno come me. Mestiere infame il mio. Vivi sempre con “l’orecchio appizzato”, appeso, come si dice a Palermo.
Ascolti tutto. In perenne equilibrio, tra il terrore di non riuscire a creare più una concatenazione di eventi che si travestano da storia decente e la consapevolezza che non c’è libro che eguagli una vita opportunamente narrata, ma anche vissuta.
Percepisci le frasi del tipo squallido, che pensa solo a sè e crede di essere l’uomo giusto per questo mondo, lui così avanti e così poco attento alle sfumature in cui uno come me si sgualcisce e si impantana.
Carpisci la nuotata sentimentale che la bella ragazza in metro si fa, immersa nel suo Iphone, messaggiando con chissà chi. Ma qualcuno che gli avvolge il cuore, se per riscaldarlo o stritolarlo ancora è presto per dirlo.
Cogli tutto, un lupo in caccia dopo un letargo che gli ha parecchio fatto girare le balle. Affamato, ma proprio da sotto. Una fame atavica che parte da molto indietro.
Mestiere infame. Scrivere. Lavoro di prestigio. Nel senso che fai davvero il prestigiatore. Giochi con colombe stanche e carte false. Metti qualcosa di inventato perchè non si percepisca la crudezza che sa di asfalto al sole.
Edulcori ciò che a questo mondo fa schifo. La fragilità, la sensibilità, la dolcezza. L’amore. Chi ha tempo per tutto questo?
Se sei bravo riesci a trattenere in un paio di pagine chi vuole starti a sentire. Ma non devi mai far calare la soglia dell’attenzione.
Attenzione. Non sempre è al massimo. Perchè le storie sono come tronchi. E la vita è il fiume che le fa sporgere.
Il fiume va guardato sempre. Perchè non tutte le storie hanno la forza, la grinta, la violenza di emergere. Alcune sono sottovoce, sottofiume.
Perchè erano storie belle, ma col tempo hanno perso smalto e rami. A forza di provare a farsi grandi sono cadute.
Perchè hanno una loro dignità ma non hanno il coraggio di urlarla. Non possiedono rami puntuti a sporgere dalla corrente.
A volte non sono nemmeno storie. Tronchi piatti. Che vanno placidi a pelo d’acqua. Assecondano la corrente. Non hanno bisogno nè voglia di emergere.
Ci sono storie che non vogliono esserlo, storie.
Però quel fiume va guardato. Perchè quei tronchi placidi possono ribaltarsi, oppure trovare sassi troppo grossi, incastrarsi.
E chi fa un mestiere infame dovrebbe essere lì a osservare.
Pronto a captare che un tronco ha una traiettoria anomala. Una deviazione, una impercettibile folata maligna di destino. Un colpo di vento che ti cambia gli occhi. Ti toglie la serenità, riempie le sacche lacrimali.
La tua storia era un tronco piatto. Io non potevo vederla. Anzi no, hai ragione è colpa mia. Dovevo vederla, ma a dare retta alle proprie beghe ogni tanto ci si tira fuori una storia decente. Quando tu passavi, io non guardavo. Non mi colpiva nulla di te, scorrevi placido.
Mi dicono adesso fossi una persona orgogliosa. Che eri fiero di quello che avevi fatto per te e per la tua famiglia. Avevi messo su un’azienda tutta tua. Facevi una vita dignitosa.
Questo fa scorrere il tronco, tranquillo. Io non vedevo i rami.
Mi dicono fossi amato dai ragazzi, che allenavi una squadra di calcio, eri un bravo mister, avevi anche tuo figlio in squadra.
Ho letto da un giornale che ti avevano dato un soprannome per la tua fede calcistica. Anche tu affondavi le tue radici al sud. Una maledizione di passionalità. Nel bene e nel male.
Avevi una figlia. Bella. Dolce. Piccola. Non si è mai troppo grandi se un genitore ha lacrime da spendere. Se è fragile. La forza la deve trovare anche dai figli.
Mi dicono questo di te. Ma io tutto questo lo volevo sentire dalla tua voce. Io ti avrei offerto una birra.
Anzi no, perchè il brutto scherzo a tutti tu lo hai fatto di mattina. Ti avrei offerto la colazione.
Eri teso, c’era una angoscia che ti invadeva come un boa constrictor, ti avvolgeva la spina dorsale provando a piegartela. Tu non ti piegavi. Lo sanno anche i bambini che chi non si piega prima o poi si spezza. Dalle mie parti per i momenti difficili si dice “calati juncu, ca passa a china”. Calati giunco, che la piena passa. Meglio abbassarsi che non essere trascinati via.
Vallo a spiegare a uno come te. Che non parlavi dei tuoi problemi e ti volevi risollevare pure se davanti avevi lo tsunami.
Il tuo tronco ha smesso di scorrere placido, io non guardavo, nessuno guardava. Perchè ti volevano bene in tanti, ma sei stato bravo a sfuggirgli.
Le tue pene sono tristemente di moda per ora. Sono quelle di ogni imprenditore onesto che non accetta di lasciare gente in mezzo alla strada.
La chiamavi correttezza. L’arma che ti ha annientato. Niente è più devastante dell’onore in cui nuotano le nostre anime. C’è a chi arriva alle ginocchia. Per te era profondissimo. In quel senso d’onore verso il prossimo, ci sei annegato.
Potrei invocare ad alibi che non ti conoscevo. Ma non mi basta. Non mi è mai bastato. Quando una vita decide di annullarsi o viene annullata da follia altrui, non mi importa che non la conoscevo. È una anima in meno che si arricchisce di sole, che si scalda ai raggi come le iguane. È una storia che smette di autoscriversi. E io non lo sopporto.
Va bene, non sono meglio degli altri. Non sono più generoso, più altruista. È che da quando ho scoperto che scrivere è un bel morbo, mi sembra atroce che certe storie vengano troncate. Magari raccontandole, scrivendole, certe storie cambiano corso, si interessano a sè stesse, si piacciono. Magari dal fiume della vita vogliono emergere. Diventare tronchi solidi. Che si piantano sulla riva e non si muovono più. Inespugnabili.
Io non ti ho preso. Non ti ho visto. Non ti ho.
Lo vuoi davvero sapere? Mi fa freddo. Come tutte le volte che le anime per ingiustizia non le prendo, non le vedo. Non le ho.
E se fa freddo a me, che non ti avevo navigante a vista ogni giorno, a chi ti amava fa ghiaccio. Quello che taglia mani e penetra nei tendini e rallenta i movimenti.
Io ti ho mancato. Tu manchi. È un gioco di vuoti. Senza soluzione.
Perchè non ti sei appeso a un cornicione per dire che stavi male? Perchè non hai detto urlando e bestemmiando che avevi bisogno? E questo non vale solo per te. Tu sei solo il tronco che mi ha sfiorato, tanti non li vedo nemmeno, perchè anche per chi fa un mestiere infame cala la notte. E al buio te ne scappano parecchie di storie.
Le notti rendono quel fiume simile all’inchiostro, ma non permettono di scrivere.
Troppo spesso fa notte fonda.
Te ne sei andato silenziosamente, con un gesto plateale e insieme discreto. Hai scelto fosse meglio così. Senza ascoltare nessuno, che poi hai sempre deciso tra te la tua anima e il tuo onore. Quello in cui sei annegato, lasciandoti annientare e dandoti la soddisfazione di farlo da solo. L’ennesimo Cristo di un troppo lungo rosario fatto di grani di crisi economica.
Ci vuole coraggio a restare, ma ci vuole egoismo ad andarsene. E lasciare uno come me a raccontare di te. Ma io conto poco, conta tu adesso. Conta le lacrime che verseranno per te. Serviva davvero avere tutto questo coraggio da onnipotente per capire chi ti amava? “Amore”, è una parola che è contenuta, impressa a fuoco nella parola “figlio” avevi due “amori”. Impressi a caldo. Per loro avresti dato tutto. Anche la vita. Ma loro non te l’hanno chiesto un regalo così grosso. Lo hai voluto fare tu.
Mestiere infame il mio, intercettare le esistenze e raccontarle, provare a sentire che i battiti hanno senso, che non sono monotoni. io regalo una storia, nel frattempo rubo la vita dalle labbra di chi me la dice. Avrei voluto fare così con te, fermarti, aggredirti, dirti che avevo capito che i tuoi occhi diventavano troppo liquidi e in quelle lacrime ci stavi annegando. si annega dal di dentro a volte e tu non lo sapevi. mestiere infame il mio,lo scrittore, ho mancato la tua storia. Avrei voluto fare un giro con te. Mescolarmi con te. “Avrei”, il condizionale del fallimento.
Avrei voluto scrivere la tua storia, forse provare a deviarla. A volte le parole non sono inutili.
Invece di te ho ignorato ogni pagina, non permettevi a nessuno di leggerti, men che meno se non conoscevi.
Io posso solo scrivere la tua ultima riga e salutarti chiudendo la copertina. L’ultima riga di E.
Fine.
É tutto qua – Fabio Concato Immaginando che sia la mia mamma, quella donna che sta chiedendo cibo ed una casa dove stare immaginando che i suoi figli sono i miei fratelli sto pensando smarrito che cosa potrei fare. Immagino mio padre che si arrampica sul tetto perché non vuole perdere lavoro e dignità però ci resta troppo tempo e noi sempre là sotto ti mando un bacio adesso, vedrai che servirà e serve immaginare per comprendere però senza nessuna velleità c’è solo della gente da difendere: è tutto qua. Immagino che sia mio figlio, adesso quel ragazzo che ride, piange e grida in faccia a tutta la città è meglio non guardarlo in faccia: sennò sarà una rogna sto pensando a quel santo che se ne occuperà immaginandomi fra questa gente abbandonata che a volte non ha niente neanche un posto dove stare ricordo un canto che diceva ‘gli altri siamo noi’ mi dispiace davvero che adesso mi veda rubare e serve immaginare per comprendere però senza nessuna velleità c’è solo della gente da difendere: è tutto qua. … e serve immaginare per comprendere e soprattutto la diversità e c’è un’umanità ch’è da proteggere: è tutto qua http://beneficiodinventario.blogspot.it/p/tutele-di-legge-creative-commons.html
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