Somigliava ad un valzer, di quelli quasi sconosciuti, nascosti ormai nei solchi di qualche settantotto giri: Jetzt musste die Weh versinken*, Wie ein Wunder kann die Liebe*, la voce è lontana, confusa al suono della pioggia che altro non è se non il fruscio del disco. La polvere sulla puntina del giradischi è il Tempo, che satura l’aria, la scombina. Così si poteva definire la sua passeggiata ai lati della strada. Inoltrandosi sotto gli alberi sferzati a tratti dalla pioggia, bluastri per il riflesso cianotico del cielo, si sottraeva all’immagine grigia del marciapiede, delle palazzine venute su come scenari di cartapesta. Certo pioveva, e l’aria non era più così calda, e le foglie ingiallite per la siccità, erano ormai precipitate e il prato ne era così macchiato, confuso, era un quadro a cui si aggiustava e si sovrapponeva la malinconia delle melodie dimenticate. Era autunno, pensò, lo si sentiva già nel cuore dell’estate, si indovinava, borbottò tra sé, in quei venti trattenuti, improvvisi, nella luna imbozzolata nelle notti umide e smaniose. Era così facile farsi prendere dalla pena romantica per la propria gioventù già colpita dal declino, per l’amore mai raggiunto, e altre fantasie. Era la luce, rise fra sé, la luce del temporale, l’aria fresca e non fredda, i piedi asciutti nonostante la pioggia. Ed era quello stato che gli dava invece allegria, che finisse l’estate inconcludente, quella zona di parcheggio attonito. Era finalmente autunno, il sole non feriva, e lui poteva pensare in quella luce fragile, in quel tempo mutevole. Nei giorni più caldi aveva ignorato completamente quel tratto di strada e quella specie di terreno ad erba secca, con alberi disseminati in maniera più o meno ordinata, e qualche panchina non ancora manomessa. Un posto senza pretese, un posto brutto sotto la polvere dell’estate. In fondo giganteggiano gli scivoli di plastica con le cupole rosse sfibrate dal sole, com’è diverso il legno scardinato dal calore, invecchiato dalla pioggia, scolorito dalle mani e mani dei bambini, vecchio e svenato, da quella plastica lì porosa e assente, inerte e squallida. Alle spalle dei giochi si innalzano le torri delle case popolari, grigie e rosse, con i panni stesi e molli sui fili sotto le persiane. E’ un deserto piacevole. Nessuno alle finestre, non un’anima nel giardino, chiamiamolo così, né un bambino sui giochi, né una mamma vociante, solo un vecchio, al limite della rotonda, spinge i pedali della sua bicicletta. Sceglierà una panchina che dia le spalle alla strada, al rapido passaggio delle macchine, è così volgare la loro apparizione nel mezzo di una immagine poetica e antica, immutabile, che sarà bene fissare come inizio di una nuova stagione. Meglio guardare verso un campo sterminato, incolto, che scende e poi risale raggiungendo un gruppo di case disgraziate, abitate da ladri o peggio. Se la pioggia poteva riprendere, per favore, perché il silenzio era interrotto ormai solo da qualche clacson in lontananza. Andava sereno e insieme ansioso, come il poeta che ha intravisto qualcosa, un’ombra, una luce, un abito, un colore, e si inoltra con occhi socchiusi. In realtà aveva lasciato la sua macchina ai bordi del marciapiede, perché guardando distrattamente, il brutto parco lo aveva affascinato. Era come una donna che ci appare sempre dimessa e una sera la incontriamo in una strada del centro, con qualcosa di seta e del rosa sulle guance, e un sorriso, il passo diverso, e sappiamo che c’è dell’altro che non abbiamo mai notato, un carattere, una proprietà che nell’analisi frettolosa del mondo, ci è sfuggita. E allora ci studiamo di rimanere sotto quell’effetto, quella vista improvvisa, quella rivelazione seducente.
Era dunque un passo conoscitivo il suo, un desiderio di epifanie, una tristezza infame che lo lasciava a sbadigliare nella sua casa, assieme agli amici e alle parole d’ordine della sua vita, e che ora la pioggia aveva schiuso, e lui transitava in quel paesaggio diverso, cambiato, e tanto ne aveva messo la luce tanto l’aria fresca, tanto la brillantezza dell’erba, come essere toccati per la prima volta da quella sconosciuta con cui si ha dimestichezza di genere, ma mai vi fu confidenza.
I passi non fanno rumore, la terra assorbe l’acqua, e le vibrazioni del tuono, e le sue impronte solitarie. Si potrebbe aspettare la notte, la notte d’autunno, che cade più in fretta, e non turba un cielo traslucido di pioggia. Nessuno è stato sorpreso dalla tempesta, nessuno va verso le panchine o a spasso con il suo cane quando sta per infuriare il temporale. Lui è sceso dalla sua macchina, e attraversa quel quadrilatero ad onde e gobbe, circondato da strade di poca importanza. Mentalmente traduce il valzer:
“Adesso il dolore deve sparire” , e quello della facciata B, “Come una meraviglia viene l’amore, o pressappoco”, gli si rinfacciano ad ogni passo i versi della canzonettista, avrà anche lei camminato in una Vienna attraversata dalle carrozze, in una Vienna in autunno, e si sarà detta che il dolore doveva sparire, quante volte nella sua vita? Se l’acqua potesse portarlo via. Che vado a pensare.
Non c’è acqua né stagione, solo oggi gli sembra che la sua di pena si possa attenuare, che mutui dal tempo, dalla luce, dal colore una idea di tregua. Ecco la panchina. In fondo si apre leggermente l’orizzonte : Ecco, pensa, come una meraviglia viene l’amore. Ma per lui non era stato così meraviglioso. Teme il pensiero, e il ricordo. E’ certo che ora è autunno, e non gli fa così male sapere che il mondo muore e poi rinasce, né pensare a tutte le sue colpe, alla crudeltà delle loro vite, come fossero vite estive. Il vento porta delle voci. Vengono dai casamenti grigi o dalle case coloniche diroccate ai bordi della strada. E’ confuso anche il suono della pioggia, che ora riprende.
Le voci indefinite sono simili ai ricordi che non vogliono farsi indagare. Certo gli torna quella voce mortificata di lei, quando diceva, oggi faccio fatica, e lui sbuffava di vederla pallida, e diceva è pigrizia, per nascondersi la verità. Gli torna, con il freddo, quanto aveva procurato freddo abbandonarsi al destino, lasciare che tutto accadesse, rimirare le proprie mani inutili. Era precisamente a questo che pensava, quando distrattamente aveva girato il capo e visto il manto verde offuscato dal giallo delle foglie, e lo aveva colpito il ritorno, e che quel ritorno lo entusiasmasse, a dimostrazione che la vita ancora lo teneva. E gli sembrava terribile, ma anche irrinunciabile che la stessa vita azionasse dentro di lui, nel solco della sua anima, il suo braccio acuminato e lo suonasse come un vecchio disco, piazzandolo tra due situazioni inalterabili: il superamento del dolore, di nuovo la speranza. Fino al prossimo dolore. Non c’era altra musica.
Una panchina. E’ in mezzo alla valle, piazzata come un unico capello sul cranio di un calvo.
Si siede stendendo le gambe, e infila le mani nelle tasche dei pantaloni. Forse fa freddo. Gli sembra che è così che inizia ogni viaggio.
Sara Milla