Alle due del pomeriggio il termometro sul cruscotto della macchina segnava 38 gradi. Il cielo era grigio, lentamente le nuvole andavano ammassandosi verso nord.
Dopo il semaforo a destra, e poi dritto, verso la Villa. La città non era deserta ma libera dal solito traffico. La strada era antica e lineare, e tagliava in due l’immensa Villa che si stendeva dolce, libera e scenografica nella zona ovest della città. Parcheggiò quasi vicino ad una delle innumerevoli entrate. L’aria condizionata della macchina non funzionava e si era sentita soffocare per tutto il tragitto. Finalmente, varcato l’arco d’entrata, la investì la visione dell’ ampio scenario del parco e le sembrò di respirare meglio. Puntò verso la Fontana del Giglio in fondo alla strada polverosa. L’erba era secca, le fontanelle lasciavano scorrere l’acqua da cannelle dorate a forma di testa di levriero.
Già da lontano si poteva ammirare la prospettiva grandiosa e raffinata della fontana che alimentava l’acqua del canale sottostante in successive cascate fino al laghetto, dove prendevano vita alberi lacustri e chiome d’ogni verde si riflettevano nell’acqua. Pensò alla gran consolazione in quell’estate difficile costituita per lei da tutta quella natura organizzata intorno ad uno specchio d’acqua, sorretta da interventi architettonici così eccellenti da sembrare che il parco fosse nato così, rispondendo a leggi sue, eterne.
Camminò lentamente, la villa era semideserta, qualche coraggioso faceva i suoi esercizi agli attrezzi spartani disseminati lungo un percorso ginnico, tra secolari pini marittimi immobili nella calura.
Le cicale instancabili, invisibili, i cigni, i lucci, le oche, le tartarughe d’acqua, un germano reale, una fila di anatroccoli che creava increspature simmetriche nell’acqua, qualche cane con la lingua di fuori al passo con il suo padrone, impavidi corridori paonazzi e apoplettici, tutto scorreva con lentezza, visioni distanziate fra di loro e più facilmente assorbibili.
Non si sentiva comunque lucida, da molte settimane ormai, dall’inizio di quell’estate rovente e interminabile. Tutto sembrava correre verso questa metà d’agosto, così vuota, così assente, affumicata e umida. Di fronte ad un parapetto si apriva una selva fitta di vegetazione, e in quel canale trovava la sua strada il vento, passabilmente fresco, costante. Le panchine erano libere. Ne scelse una e si sistemò di fronte all’aria che le asciugava il sudore, confermando che tutto quel caldo che le affaticava la vita era stato molto spiacevole. Pensò di aver fatto bene a decidersi a prendere la macchina e venire qui. Intanto si accumulavano nubi come velature su una tela. Il colore delle cose apparve immediatamente malinconico e autunnale, e questo le piacque, considerato quanto le tinte esasperate e folli di quell’estate fossero state estenuanti. Passavano alle sue spalle, sul sentiero ora di ghiaia, ciclisti solitari, e lentamente sopraggiungeva una coppia con un bambino piccolo. Stanchi e infelici, sembravano, e il bambino avanzava in mezzo a loro, incerto. Pensò di alzarsi e attraversare la pineta. Il profumo della resina le ricordava immancabilmente le pinete che scovava sua madre intorno a casa loro, quel luogo che allora era la periferia estrema della città, un brillante universo di campagne e terreni e case coloniche, al cui centro sorgeva una unica palazzina, la loro.
Di fronte, di lato, non c’erano che prati dove a volte si riversavano greggi e cani, e dietro il pastore, tranquillo, sicuro, assente, unico umano in un mare di lane belanti. Correvano al balcone ad osservarli. Era incredibile il tempo che avevano una volta, non solo lei che era una bambina, (non le era sembrato il tempo qualcosa di interminabile per molti anni, forse venti, trenta?), ma anche suo padre, e sua madre, con i gomiti vicini poggiati sul davanzale del loro balcone, a guardare insieme il gregge, più lontano la marana con i suoi salici piangenti, e oltre, i campi seminati. Così sua madre, tenendola per mano andava camminando in cerca di luoghi nuovi, e trovava cancelli aperti su tenute dimenticate, e lunghe teorie di pini profumati dove portare la bambina a respirare aria buona. Poi immancabilmente faceva amicizia con “le signore”, e lei rimaneva con altri bambini, più grandi, più svegli, tutto sommato più crudeli. A lei piaceva stare con le donne grandi e sentirle parlare e immaginare la vita che avrebbe fatta. Ora percorreva questa pineta e ricordava. Ed anche, che in quel parco selvatico della sua infanzia dopo molti anni aveva condotto suo padre, cercando di dare un senso all’andare continuo che si era impossessato di lui. Ma adesso era forse inutile pensarci, meglio godersi le ventate che si insinuavano tra le traiettorie ordinate dei tronchi. Loro due non c’erano più, e il quartiere era diventato un quartiere di lusso, la marana era stata prosciugata, e gli spazi rimpiccioliti, il posto dove sua madre si piazzava con un seggiolino a leggere mentre lei osservava fiori e formiche era ricoperto d’asfalto e ci stantuffavano gli autobus ammassati al capolinea. Si ferma. C’è un punto in cui arriva a folate l’odore dei pini ma anche qualcosa di nuovo, forse la pioggia, quasi l’inverno, quando in quel luogo lei ci cammina con il cappello e la giacca a vento e gli stivali, e raccoglie frutti sotto gli ippocastani, e legni e foglie secche per la tavola di natale. Si sente un rombo lontano, e qualche goccia le cade sul viso. La poca gente seduta alle panchine continua a chiacchierare e dall’entrata principale si vedono arrivare altri gruppi di persone.
Cerca confusamente un pensiero precedente, ma si stanca e non lo trova. Cammina ancora, le sembra di razzolare in una strana solitudine, allunga il passo verso la biblioteca che è nel parco ma la trova chiusa. Ormai le porte chiuse sono quasi un sollievo. Pensa a quali fiori porterà a suo padre o se sarà meglio preparare della terra in un vaso e scegliere una pianta che possa resistere alla siccità. Pensa amaramente a quando parlavano di comprarsi una casetta con della terra intorno, a quello che condividevano, e che le scorreva nelle vene, idee buone e cattive, nelle quali riconosceva lo sguardo di suo padre. Che non aveva fatto altro, da quando era entrata in quella villa, che discorrere con lui e mostrargli i cartelli sui quali erano descritti gli alberi, e indicato la Villa Vecchia e il suo giardino segreto, e un luogo dove spuntavano armoniosamente arbusti esotici. Ci voleva quel fresco per tornare sui propri passi, riandare alle ultime settimane e finalmente tenersi in disparte a parlare con chi non era riuscita a salutare bene. Ancora il rombo più vicino, e il cielo uniforme, turchino e cenere. Le toccò di pensare che a lei nessuno l’avrebbe ricordata. Poi seguì una serie di immagini nitide, tutte antiche e per questo precise, impresse quando la sua mente era tenace. Le sembrò che quello che aveva rimproverato a quell’uomo non fossero altro che scuse per non amarlo più e per soffrire di meno, e non frequentare la sua lunga malattia, quella vecchiaia biblica e sofferente. Non rimanevano che le intese e i bei ricordi. Si fermò sulle scale della Villa Vecchia, che era splendida, tutta bianca e violacea sotto il cielo di piombo, misteriosa come se sorgesse da acque verdastre. I suoi piedi calpestavano, sotto un ammasso di foglie stecchite, ruvidi mosaici bianchi e grigi. Non ti dimentico, pensò.
Cominciarono a cadere sulla pavimentazione asciutta del camminamento laterale delle gocce larghe e molli, via via divennero più insistenti. Il tuono si liberò violentemente.
La pioggia era fitta come polvere, e calda. Il vento si sollevò più impetuoso. A terra, tra le foglie, si addensava una schiuma giallognola, gli alberi scossi e brillanti sembravano rianimarsi. Non c’era altro suono che la violenza del temporale, la furia dell’acqua, il silenzio delle cicale.
Intorno non si vedeva più nessuno, come se le persone fossero scappate per tempo e solo lei fosse rimasta intrappolata nella Villa, lontana da ogni uscita. Si appoggiò alla parete di una fontana senz’acqua, dove nell’incavo un fauno di pietra suonava un flauto. Le sembrò che forse il temporale non sarebbe passato mai, e che l’avrebbe portata nel cuore dell’inverno, perché era l’inverno che le teneva le mani, l’inverno nel volto rugoso del fauno, nell’attitudine al ricordo, al freddo giudizio dell’anima, al disincanto, ad un angolo asciutto da cui vedere la vita.