da uno spunto gentilmente offerto da Salvatore Coppola
Se nel mondo intero sogni troppo, oltre il limite di tolleranza, ti si liberano solo due posti da occupare. Ingenuo, o peggio, scemo, oppure uno che grazie ai suoi sogni ce l’ha fatta.
Il posto di scemo del paese apparteneva a buon diritto a Calogero. Più di trent’anni di onorato servizio senza smettere mai, darsi malato, mettersi a riposo.
In fondo quella piccola crocchia marinara non lo impegnava nel suo compito. Era successo tutto un giorno di tanti anni prima. L’Italia si interrogava sul futuro, il cadavere di Aldo Moro era stato appena trovato, un attacco allo stato in piena regola, sferrato a uno dei suoi rappresentanti più importanti. Uno che forse faceva salire i comunisti al governo. I comunisti, detto come dire delinquenti, mascalzoni. E lui era un delinquente e mascalzone, perchè comunista di sangue di nascita e di idee.
Quello che era peggio è che gli avevano ammazzato un simbolo più domestico, più vicino, la notte prima. Peppino. Un rivoluzionario sognatore che non era andato oltre la soglia di tolleranza prevista dal mondo, ma aveva pestato i calli alla mafia.
Il 9 maggio settantotto, fu un giorno in cui la sua voglia di appartenenza a un movimento, a una idea, a uno Stato vacillarono.
Che succede quando in un matrimonio si finisce per guardare i peli sotto le ascelle con ribrezzo alla ex donna ideale? O se il proprio principe azzurro trascura l’igiene personale?
Si va via, o si resta mettendo più amore.
Così fece lui, niente famiglia, solo ideologia, fede politica. Ma il titanic era dietro l’angolo.
Un giorno di qualche settimana dopo quel momento rovente e azzoppante per la nazione, Calogero assiste al comizio di un importante uomo della sinistra. Venuto a parlare in quei territori per stare vicino ai “compagni”.
Un Pazzo, un innamorato, un omicida, non sanno identificare il momento, l’attimo esatto in cui la pausa tra un battito e l’altro segna il passaggio, il momento in cui comincia o finisce di essere il sè stessi di prima.
E basta un niente, non si creda.
– è venuto il momento in cui non si può stare a guardare, è l’ora della rivoluzione, della gente nelle piazze contro chi attenta alla vita del paese..!!-
Lui quella rivoluzione l’aveva intesa come impegno del giorno dopo.
A dire il vero se anche la rivoluzione fosse stata il giorno dopo non era modo di presentarsi a un appuntamento così importante. Come se la morte ti cogliesse seduto sul cesso appena fatta la cacca. Non è elegante diamine!
Bandiera a mò di mantello di superman, un eroe con falce e martello di raso rosso. Un eroe di cinque minuti, l’abbigliamento, la coppola storta, il bastone con cui aveva deciso di combattere, completavano la crosta. Chiamarla quadro era troppo.
Pensò “anche la rivoluzione ha degli orari” lui aspettava i compagni in piazza all’alba. Digiuno per l’emozione dal giorno prima. Combattere richiede nutrimento
-i compagni staranno facendo una robusta colazione pensò-
Passò dalla convinzione fosse troppo presto a quella che forse aveva sbagliato giorno. Anni dopo Giorgio Gaber lo avrebbe involontariamente cantato.
Qualcuno era comunista perchè, la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani..
Forse era domani, o dopodomani.
Si era risolto a tornare a casa, ignorando che un paese è fatto di abitudini. Se arriva l’ora di scendere per strada, si scende quasi all’unisono, specie se si fa quasi lo stesso mestiere.
Lo intravide uno che non la pensava come lui, anzi diciamo che proprio votava secondo indicazione della chiesa del tempo, che chiedeva un voto “democratico ma anche cristiano”
Fu lo sparo del dileggio iniziale
-Lillo…ma unni minchia vai cunzatu accussì?-
Fossimo stati allo stadio negli anni novanta, il movimento successivo nel voltarsi, in leggero sfalsamento, degli altri compaesani distratti fino al botto verbale, sarebbe stato catalogato come “ola”.
Poi, quella in perfetta sincronia, partì la risata generale.
Lo avevano preso nella tagliola, ma Calogero, detto Lillo, aveva una risorsa.
Si ricordò che nel paese c’era ancora un posto libero. Quello di scemo. Pirandellianamente si trattava di lasciar andare la corda pazza.
Ma non fu l’unico mattone del folle edificio esistenziale concepito.
Il verme della convinzione che una rivoluzione va tenuta segreta si fece strada. Sicuramente era stata solo rimandata. Lui aveva rovinato tutto per quel giorno scendendo in anticipo, ma di lì a qualche giorno bisognava stare pronti.
Sicuramente l’indomani era il giorno del combattimento proletario. Tra le risate di ogni tipologia, sforzate, eccessive, di cuore, di sedere (lo sforzo si sa..) dei compaesani, Lillo si fece strada verso casa, come un Mosè che apre l’acqua di un oceano immenso di prese per il culo.
Guardò quel ritaglio di giornale che aveva sul comodino, appena aperta la porta. La foto sorridente di Peppino, ucciso pochi giorni prima.
– Peppino, mi sono sbagliato, oggi non c’era la rivoluzione, ma domani vedrai che la fanno, ti porto pure a te-
Così fu, l’indomani scese bardato di tutto punto, inesorabilmente ripartì il dileggio.
Gli anni ingrigiscono le abitudini ma non le cancellano, le stingono. Tutti i giorni, per un tempo che servì a farlo tramandare come mito semovente, Lillo scendeva la mattina con la sua bandiera e il suo bastone. Ogni giorno di ogni anno partiva una risata sempre più stanca. Lui paziente tornava a casa, ritirava fuori la foto di Peppino e la posava. Ormai era più nastro adesivo che carta, ma quel sorriso pennellato con sogni e ideali restava uguale e dava uguale forza a Lillo.
A volte poi c’era pure la replica. Se sentiva movimenti strani, rumori o voci si infilava subito il suo costume da redman, come lo aveva soprannominato un ragazzetto delle nuove generazioni, arrivava, constatava che manco quel pomeriggio si trattava di rivoluzione, ma di festa del santo patrono in preparazione e risaliva sconfitto ma non domo.
Era coreografico, come tutti i pazzi innocui. Non c’era ospite di qualche paesano cui veniva risparmiata l’affacciata al balcone mattutina per vederlo scendere, gli vennero fatti anche dei video, si sa che se vuoi davvero essere squilibrato nel terzo millenio, non sei nessuno senza una condivisione su youtubbo o feisbuk.
Fu a un ritorno a casa un pomeriggio. Come sempre la mattina aveva dato spettacolo.
Era andato a comprarsi qualche cosa da mangiare, per distrazione sbagliò strada e passò dal bar dove non passava quasi mai.
Vide gente infervorata.
-sono dei ladri!- urlava uno
-è uno scandalo, poi chiddu puru ca si mancia tuttu- ribatteva un altro
-non si può continuare così, domani sera se le cose non cambiano, le facciamo cambiare noi, gli spacchiamo le porte, basta con questi mangiapane a tradimento!-
Gli sembrava di sentire come se qualcuno gli versasse miele nelle orecchie.
Lillo non bestemmiava mai, almeno a voce, non gli apparteneva. Ma certe volte a guardare la tv qualche parola di troppo rivolta verso l’alto la pensava, si calmava solo guardando la foto di Peppino.
In pratica ogni giorno era una incazzatura didattica a chiusura del telegiornale. Imparava nuovi termini o ne rispolverava di vecchi, crisi, spread, suicidio, operaio e imprenditore (questi erano facili, elementi di lotta proletaria..), omicidio-suicidio, li conosceva separati e non in crasi. Ma quello che lo mandava in bestia era l’associazione di due termini, trattati come fossero parti contrattuali che comprano una casa. Trattativa stato-mafia. Gli sembrava una mancanza di rispetto verso chi quel contratto non l’avrebbe onorato mai. Perchè per non essere uomini d’onore ci vuole coraggio, certa gente, prima e dopo Peppino ne aveva avuto tanto.
Lo aveva incuriosito un giorno la parola “torneo di burlesque” pronunciata come accorata difesa a delle ingenue fanciulle da un esponente di spicco della politica italiana, in quel caso aveva subito trovato il sinonimo.
– ma chi schifia è? A mia mi pari un campionato rì pullaggine…-
Sempre rivolto alla foto di Peppino che, la mano sul fuoco, dall’alto sopportava paziente.
Quel discorso al bar lo aveva sedotto. Se la mattina era riservata alle sue performances sempre meno attraenti in falce e martello vestito, il pomeriggio era ormai un appostamento. Lo stalking auditivo era fatto con tutte le cautele, non facendosi vedere.
Non c’era dubbio, le frasi erano limpide come acqua di mare in inverno, senza la piscia dei bagnanti.
– vedrai, dobbiamo vincerli tutti, stavolta tutti a casa!-
– si, hai ragione, hai preparato gli striscioni’-
– a casa sono, vedrai sabato che cosa gli combiniamo se fanno minchiate ancora..-
– da Roma e Torino che notizie hai?-
-sono pronti anche lì, anche a Genova, Bologna, Milano, ti dico che davvero è una cosa di tutta l’Italia stavolta-
Non c’è dubbio, rivoluzione eversiva, gesti atti a sovvertire il potere locale e poi quello centrale, bisogna solo aspettare sabato.
Lillo però non è ben visto nel paese, non conosce direttamente quei giovani, per cui si fa due conti e decide che attenderà il segnale di sicuro la gente si riverserà in piazza a quel punto lui si confonderà tra la folla, oppure magari quelli che l’hanno deriso si dovranno rimangiare tutto. Finalmente.
– Lillo, scusaci, avevi ragione , ci dispiace, c’era davvero la rivoluzione-
Così gli avrebbero detto con sguardo rivolto allo stato della lucidatura della punta delle scarpe.
Lillo vive quasi non mangiando più in attesa del giorno inquisito. Non fa nemmeno più il suo spettacolino diurno. Non si può dire che il paese ne soffra, o si chieda il perchè. Se fai parte dell’arredamento urbano, questo ti tocca. Come se levassero un cestino della spazzatura.
E il sabato arriva, le ascelle pezzate, la tensione, la foto di Peppino piena di nastro adesivo, la bandiera, tutto pronto.
La confusione arriva, arrivano le grida, arriva il popolo, passa sotto la sua finestra, imbestialito. Era vero, tutto, è la rivoluzione. È la gente che si ribella allo sprid, sprud..comu minchia si chiama, ai suicidi a falciaerba, a mazzi, alle trattative tra chi manco si dovrebbe rivolgere la parola.
È lei, si è fatta aspettare ma è pronta. La rivoluzione attende tutti i suoi amanti per giacere con loro notti e giorni.
Lillo scende, un fiume di gente fa tremare le pareti, guarda la foto di Peppino.
-ci siamo amico mio, non ci credevamo più, eh Peppì?-
Si butta nel fiume di carne e sudore.
Vestito come sempre. Gli altri vestiti in modo strano, colori strani. La politica è cambiata, anche cromaticamente.
Però che brutture stì colori, a metà tra una foto del passato e un mucchio di animali.
Che animali? Zebre.
-ma chi partitu siti? Unni è ca faciemu rivoluzione?- urla con una voce strana, alta, forte. Non gli appartiene, ma serve. Perchè gli altri si occupano di lui. Lo notano.
In lontananza uno di quei giovani del bar, con una sciarpa al collo. Si avvicina a metà tra l’incazzato e l’infastidito, un microbo cromaticamente differente che stona.
Gli prende la bandiera, Lillo è abbastanza svelto da salvare la foto.
-Che fai quì Lillo? Non ti basta romperci la minchia tutte le mattine? Pure la nostra festa devi rovinare?-
-festa? Non è la rivoluzione?-
-no, le vedi stè sciarpe? Siamo tifosi della Juve, stiamo festeggiando lo scudetto-
-e quando dicevate che bisognava fargliela pagare a quei ladri?- Lillo riesce a tenere testa al confronto dialettico come in una partita di tennis. In effetti il silenzio è surreale come a Wimbledon.
-parlavamo di certe altre squadre che recriminavano su gol fantasma e punti che non avevano, ma perchè che credevi?-
Adesso il ragazzo non è più incazzato, ha una tenerezza che a Lillo fa rabbia, perchè è la pietà verso un inoffensivo come lui, adesso è anche disposto a dargli spiegazioni.
Cerca gli ultimi appigli dialettici, l’ultimo rampino di speranza.
-..e quelli di Genova, Milano? Che erano?-
Il ragazzo gli restituisce la bandiera, ormai ha capito la situazione, ma a dire il vero non si sa chi sia lo sconfitto.
-erano i club dei tifosi, abbiamo fatto una manifestazione comune, tutti gli juve club d’Italia, ci eravamo messi d’accordo, per gli striscioni e le scritte da mettere, tutto qui-
Lillo ormai decripta l’ultima tessera del mosaico, le frasi, il quadro. Mancano le ultime pennellate, ma il capolavoro della seconda cantonata della sua vita è lì.
Stavolta però non ride nessuno, i ragazzi pian piano lo superano anche con deferenza, recuperano la loro voglia di festeggiare. Quasi attendessero di essere a distanza almeno di rispetto per Lillo, scandiscono cori dopo un centinaio di metri.
-ti è caduta questa- fa un ritardatario.
La foto di Peppino.
– tu pensi che sono triste Peppino?, ti sbagli. Lo sai qual’è il vantaggio di essere pazzi? Che hai il salvacondotto per tutto. Lo vedi che nessuno rideva adesso?. Lo sai Peppino, tutto questo non sarebbe successo se c’eri tu. Se scendevi tu quel giorno col bandierone e con un bastone per fare la rivoluzione, a te ti sarebbero venuti appresso. Ci vuole amore per fare una rivoluzione come si deve. Non basta l’impegno.
La verità è che non abbiamo più poche strade da percorrere. Non siamo più un fiume unico di cristiani che ci credono. Adesso siamo diventati tanti canali di poca acqua di egoismo da portare a casa nostra senza fare cadere una goccia. Prima la gente si sentiva bene a andare nella stessa direzione, a non chiudersi la porta alle spalle e dire che se due operai mangiavano e uno no non era giusto. Ora invece la porta resta chiusa. Ma nessuno esce per vedere se stiamo mangiando tutti. Per me questo era credere alla politica. Immaginare tante case accese, dove tutti hanno pagato la bolletta e hanno figli sazi. La politica ingrassa qualcuno e affama gli altri, a mia mi pari accussì, prima forse c’era più gente che non chiudeva la porta.
Peppì ma non è che non ci credo più alla rivoluzione, a mia mi piaceva come pensavi tu. C’ho voluto bene a quelli che sono morti contro la mafia, ma tu pi mia eri un frati. Eri uno della gente, perchè venivi da noi e non volevi diventare come loro. Già non è stato facile per quei due poveri giudici della Magione, ma tu di quelle persone eri Impastato. Di nome e di fatto. Eri Impastato col loro sangue e eri Impastato di cognome.
Era difficile uscire vivi. Ma tu ci hai provato e sei diventato immortale.
Io ci credo che c’è ancora una strada Peppì. Una sola.
È che ci dobbiamo guardare negli occhi, come facevi tu. Ce le dobbiamo dire in faccia le cose.
Forse è questa la vera rivoluzione. Non chiudersi quella porta di dietro e guardare al balcone del vicino, per vedere se sorride.
Come fosse primavera.
Tu ridi Peppino, a volte penso che li hai fregati tutti. A te quell’ottimismo che le cose cambiano ti resterà in eterno. I veri morti, da tanto tempo siamo noialtri.
Non ti secca se domani la rivoluzione non l’aspetto?