Una nuova “avventura” del Commissario Maltese, il giorno prima di prendere servizio
Sono davanti alla tua dimora. Nell’ultimo posto dove ho pensato di parlare un po’ con te. A volte cadere nel simbolismo fa bene. fa anima, come dicono gli psicologi. Stare qui mi sembra ridicolo. Quando lo vedevo fare agli altri mi veniva un po’ di pena. Penso che sia come lasciare una persona alla fermata del bus o alla stazione. Sai che non la rivedrai, partirà e non tornerà. Eppure nei giorni successivi, vai alla stessa fermata e cominci a parlare con la pensilina, col cartello con su scritti i bus che passano da lì. Lo fai convinto di parlare con chi hai salutato, con molto dolore giorni prima.
Io sono convinto che tu non sia qui. Cioè, le tue ossa ci sono. Ma tu forse no. Non sei in casa. Magari sei con Chiara nostra figlia, sono convinto che non l’avresti mai lasciata sola nemmeno da vivo. Mi spiace non averti dato la gioia di essere nonno.
Mi spiace anche di non aver saputo mantenere quella tregua armata in famiglia ma io purtroppo non riesco a tenere facilmente l’equilibrio che fingono di creare altri. Tu eri bravissimo a contenere mamma e le sue intemperanze. Non so se lo facevi perché subivi o perché eri convinto che senza di te non avrebbe saputo cosa fare. So che ogni sera pazientemente, aspettavi la sua telefonata. Anche da separati, anche mentre lei ti aveva sostituito. A me lei ha detto che lo sapevi. Non so se crederci, ma ormai non ha importanza.
Non so se dire che è molto che non ci vediamo. A me viene il dubbio che stanotte in sogno eri veramente tu mentre dormivo. Mi viene anche il dubbio che tu e Chiara, siate sempre insieme. Per la proprietà transitiva, tu sei sempre con noi. Quando aveva due anni a volte voleva addormentarsi con una favola. Spesso sceglieva Daniela come narratrice e lei raccontava cappuccetto rosso. Daniela ti piaceva come nuora, il tuo stesso carattere da orso. Cioè da finto orso. Quegli orsi che si scelgono accuratamente i plantigradi a cui accompagnarsi. Quelli che sembrano inavvicinabili e poi basta una grattatina nel punto giusto per farseli amici.
Daniela non voleva raccontare a Chiara tutto il casino del cacciatore che spara e del lupo che mangia la nonna, allora raccontava cappuccetto rosso che passava delle giornate noiosissime e inconcludenti con la nonna e i genitori. Non immagini quante risate che mi facevo al buio. A volte però Chiara sceglieva me. Allora mi piaceva raccontare che il suo nonnino che vede in foto, quel bell’uomo che tiene in braccio un bimbo, non è più qui con noi. Perché guarda la nipotina dal cielo. Anzi è stato proprio lui a scegliere il bimbo più bello, andando di persona nel settore del paradiso dove dormono i cuccioli che aspettano di incontrare papà e mamma.
In fondo è la verità, no papà? se tu non fossi andato via, io non avrei Chiara nella mia vita. Non cercherei di fare il padre con tutte le contraddizioni e la paura di non essere all’altezza.
Mi spiace non esserti riuscito a dare un pezzo del mio fegato, per salvarti da un tumore. Ho ricordi confusi di quel periodo. Ma ho la vaga sensazione che tu mi abbia preso per il culo. Mi hai detto che non avresti fatto l’operazione se non mi fossi laureato. Poi avremmo fatto il trapianto tra vivi. Come ci avevano detto in quel centro specializzato. Così presi l’aspettativa dal lavoro e mi buttai sulla laurea, a cui devo l’essere diventato commissario.
Io mi sono laureato in fretta e furia. Non è bastato.
Ci ho messo un po’ a cercare di comprendere sai? Sono dovuto diventare padre, per capire voi quando ero figlio. Capire non vuol dire fare come voi. Non metto nemmeno in discussione l’amore che avevate per me. Il problema è che lo avevate solo per me. Per voi non avevate nulla. Non capisco perché tu per primo ti sia autopunito in questo modo. Avete fatto un edificio di cartone, senza sentimenti solidi. Senza chiarezza dentro di voi. Secondo me la vostra unione è stato come se io provassi ad allevare un cormorano. Una esperienza piacevole, ma alla lunga non capirei un cazzo di come gestirlo.
Un po’ ero un cormorano per voi. Mi amavate, ma alla fine non sapevate quando era il caso di lasciarmi andare. Inconsciamente ero il vostro alibi. Più stavo nei paraggi e meno c’era da pensare a voi due. Che intanto vi coltivavate un amore in teleconferenza.
Io non lo so dove avete sbagliato, anche perché non so dove sbaglierò io. Non voglio fare le vostre stesse cazzate. Forse anche io non so riconoscere bene i sentimenti, non lo so se io e Daniela staremo insieme tutta la vita.
Quel che resta, le persone che hai lasciato a provare a fare famiglia con me non mi aiutano. In parte non condividono la scelta di sposarmi con Daniela
Non sarebbe piaciuta nemmeno Barbie edizione speciale premio Montessori alla mia famiglia. Non è un problema di Daniela. Mamma mi ha sempre visto come il tuo sostituto. Morto tu, io dovevo continuare a saldare il suo eterno debito d’amore.
Anche tu lo dicevi che mamma era stata amata male da nonna. Anche tu non capivi il rapporto che aveva con sua madre.
Ma io non sono nulla di quello che eravate, almeno tu, lo capisci? Io non sono una pertinenza, un box dell’edificio principale. L’amore che provo per voi non è un obbligo.
Soprattutto papà, io non sono il fidanzato, l’uomo, il genitore, l’amico di voi due. Sono vostro figlio. Anzi adesso nemmeno quello, sono padre.
Quello che la nostra vita insieme ha portato dentro di me, ora dovrei dirlo a qualcuno. Forse a te. Ma credo che da lì, dove sei ti sono chiare fin troppe cose. Io ho dei fantasmi, frutto del ritardo nel realizzare che i binari che percorrevamo come famiglia erano morti. Lucenti ma senza nessuna destinazione.
Abbiamo sempre avuto questa lontananza di base, eravamo una famiglia, ma non si abbracciava nessuno, eravate marito e moglie, ma lo avete dimostrato solo lo stretto necessario perché nascessi io.
Non te l’ho mai detto, ascolto sempre una canzone, che ritrae esattamente come mi sento “figlio d’un cane, figlio di cinque minuti, figlio di un preservativo rotto, figlio d’un equivoco”.
Mi avete amato, mamma mi ama, ma di un amore strano, non vuole vedermi come una donna tradita da un uomo, ma chiede di me, come una fidanzata speranzosa.
Io non maledico nulla papà. l’ho fatto, per rabbia, perché anche io volevo essere amato bene. ma nessuno ci è debitore, specie se arriva dopo. Io posso amare per contraccambiare, ma non posso riempire i barili che altri hanno lasciato vuoti. Poi non mi resta amore né energie per chi vuole me al futuro, non al passato remoto.
Mi manchi papà, ma io sono veramente fatto male.
Perché a me manchi in momenti particolari, ad esempio ho avvertito un vuoto enorme in uno dei giorni più felici della mia vita.
Non te l’ho mai raccontato. Era ferragosto, l’anno scorso o due anni fa, non ricordo. Io Daniela e Chiara eravamo in Trentino, in vacanza. Il sedici sera, Enrico Ruggeri, il mio cantante preferito, cantava di fronte casa nostra. millequattrocento chilometri. Per arrivare nel posto dove normalmente ci sarebbe bastato scendere le scale per ascoltare il concerto.
Il sedici pomeriggio avremmo dovuto lasciare la stanza. Daniela aveva intuito quanto io tenessi a quel concerto. Chiara avrebbe potuto conoscere il “cantante di papà”, come lo chiama lei.
Finì che lasciammo la stanza alle sei di mattina, per arrivare in tempo. Finì che Chiara ha conosciuto una delle persone che più mi stanno a cuore.
Con Enrico ho sempre avuto un bel rapporto. Quando sei morto tu, gli ho raccontato per lettera tutta la mia vita, familiare e genitoriale. L’ha letta e mi ha voluto conoscere. Così sono circa sei anni che ci vediamo ai concerti.
Il bello di quel giorno è che in scaletta non era compresa una canzone che lui sa essermi cara.
Io passeggiavo con Chiara sotto al palco era assolutamente stregata da tutta la strumentazione musicale. Voleva salire per cantare al microfono e Enrico l’ha presa in braccio
Quando ha fatto le canzoni per provare il suono, è partita quella che mi apre il cuore. ha fatto la canzone che mi ricorda te, che mi riporta a te.
“lungo il viale così lontano, la mano piccola nella grande mano
E chi dei due guidava l’altro io non so dirtelo
C’era sempre un po’ di nebbia, nel parco giochi con la sabbia
La gente in bianco e nero e le madri tutte uguali nei foulard e nei paltò”
È “la Vie en Rouge”, l’attacco mi riporta a te, quando chissà chi portava l’altro a giocare a Villa Giulia a Palermo. Quel parco di fronte al mare, dove un tempo c’erano le gabbie con i leoni e le tigri, le oche, gli stambecchi, i cigni. Forse è un problema di prospettiva papà. Quando siamo piccoli tutto sembra irraggiungibile, mediato dalle mani degli adulti, nel loro potere di concedere o non concedere. Ma a me quel parco sembrava magico, forse era la prospettiva. Il pane duro portato ai cigni e alle papere che se lo contendevano tra le mie matte risate, quel giochino dove salivi su un cavalluccio e avevi davanti una pistola e sparavi ai soldatini degli indiani. Ci avevano educati così, ad ammazzare gli indiani. Io poi avevo il culto degli ufficiali nordisti. Ti ricordi papà, che mi feci fare apposta la divisa per carnevale? Ora ho capito chi aveva ragione, i cowboy, i nordisti, i film su di loro che vincono non li amo più.
Ma la mia via era quella, mano per mano. la canzone andava, Enrico cantava e io non smettevo di piangere. Nessuno coglie l’unicità di un momento se tu non dici che è unico.
Io mentre Enrico cantava, ero in lacrime. Dopo che te ne eri andato era la prima volta. Avevo Chiara in braccio, la stringevo forte.
Come può un piccolo dolce gesto essere tenuto così caro. Enrico l’aveva cantata per noi, “vedendovi mi sono commosso e l’ho cantata” mi ha detto poi.
Sono fatto così papà, per farmi piangere ormai mi devono prendere alla sprovvista.
- Forse è meglio che pensi al futuro, qui è tutto un trionfo di ricordi forzati-
Mi hanno preso alla sprovvista, un secondo prima di piangere di nuovo. Un uomo dietro di me, sta svuotando un vaso di fiori dimenticati e lo sta riempiendo d’acqua.
- Io devo chiudere –
- È il custode?- domanda retorica, chi può essere, la morte in persone che controlla il registro dipendenti?
- Sono un parente-
- Questo di solito si dice ai funerali-
- Guardati intorno, l’atmosfera è quella. Io devo ringraziarli, se non ci fossero loro io non avrei lavoro-
- Loro chi? Mica sarà parente di tutti?-
- No, io sono un parente dei morti, pian piano mi ci affeziono, allora per evitare che tanti di loro li spostino, le tombe le curo personalmente, non hai idea di quanta gente una volta saziata l’apparenza e le maldicenze, li lascia qui, dimenticati. Ma se devo ringraziare qualcuno, sono i vivi. Sono patetici, arrivano, piangono perdite inconsolabili, ma calcolabili, fanno il conto tra una lacrima e l’altra dei lasciti testamentari, alla fine vanno via. I morti per chi resta sono come libri. Una volta finiti, al massimo dentro dimentichi il segnalibro, ma ti scordi di loro. Il resto, le celebrazioni, le festività e gli omaggi annuali, tutto fatto solo per dare un bel colpo di mocio alla coscienza. Però gli angoli sporchi nell’intimo non li puliranno mai-
- Mi spiace, credo di appartenere a questa schiera-
- No, se mi sono avvicinato è proprio per questo, vedi io quando arrivano i parenti di qualcuno, colgo una fregola immediata di andarsene. Per molti venire qui è come una pratica da sbrigare, un brufolo fastidioso nel sedere che prima o poi bisogna spremere, li vedo muoversi distrattamente, vorrei dirgli come trattare il loro congiunto, che cosa gli piace, come vuole essere ricordato. Invece no, scrivono frasi vuote sulle lapidi, fanno finta di pensarlo ancora. Una breve apnea, varcano il cancello escono e riprendono fiato-
- Io non ho fatto così?-
- Intanto lasciami dire che tuo padre è proprio una persona spiritosissima, è un piacere stare con lui, un po’ pomposo, ma poi generosissimo. Una cosa devo riconoscergli in pieno. Ha amato più delle sue possibilità, più del suo portafoglio cardiaco. Ha concesso più battiti del cuore di quanti ne avesse a disposizione-
- Lo conosceva?-
- Se ti fa piacere parlare con i tempi verbali dei morti allora sì, parliamo al passato, lo conoscevo-
- Perché dice che per me è diverso?-
- Tu hai portato i regali come a natale, hai l’aria di chi è entrato per dare qualcosa, poco mancava che tiravi fuori le foto. Se non ti avessi fermato, andavi avanti per ore. È tempo perso, credimi, lui qui non c’è, lo so che lo hai pensato anche tu. Stai cercando una foto ingiallita nel posto sbagliato, invece devi pensare a quello che ti aspetta, ai motivi per cui sei qui, nella tua città-
- Come fa a sapere che c’è un motivo che mi ha spinto qui da lontano?-
- Il tuo smarrimento, il tuo naso dritto, sembri un leone che hanno riportato nella savana dopo averlo tenuto a figliare al polo, come Ciccio, il leone di Villa Giulia, da vecchio lo hanno portato in una riserva naturale, dandolo per morto. ha ritrovato i riflessi felini e si è trombato tutte le leonesse. Altro che morto, un altro po’ e si metteva su due zampe per fare il gesto dell’ombrello!-
Ho un brivido, potrei dire felino, è strana questa citazione topografica così vicina ai miei pensieri.
- Sei tornato dalla cattività, secondo me c’è qualcosa di forte tanto quanto le tue radici che ti trattiene da quel lato-
- In effetti ho il cuore stiracchiato sgualcito da troppe corse da un lato e dall’altro-
- Dammi retta, la capacità motoria degli abitanti di questo posto è elevata, certo, fa piacere che qualcuno si ricordi di venire per dargli gli ultimi ragguagli, a parlare un po’ di sé. Però anche se ne apprezzo la sincerità, il dolore vero per la perdita, quei pochissimi che vengono col cuore puro mi sembrano affetti dalla sindrome dell’allenatore incompetente-
- Cioè?-
- Gli allenatori bravi leggono la partita in anticipo, capiscono già dagli spogliatoi che cosa succederà, spesso hanno già chiaro se sarà sconfitta o no. I dilettanti provano disperatamente a fare mosse di conseguenza a quelle del dirimpettaio. Si affannano, è un miracolo se porteranno a casa lo zero a zero-
- Ho capito, loro sanno prima che noi facciamo qualcosa, se è una stronzata o un’impresa-
- Ne soffrono in anticipo, sì-
- Mi sta dicendo che farei bene a non tornare?-
- Ti sto dicendo che forse potresti venire, dando per scontato che mentre vivevi qualcosa lo stavi già raccontando a loro-
- Grazie, la lascio andare, credo che lei debba chiudere-
- Sì lascio il mondo degli illusi fuori, per un po’ stiamo tra noi-
- Mi dice come faceva a conoscere mio padre?-
- Qui c’è tempo, tante cose vengono dette in modi che nemmeno ti aspetti, basta fidarsi di loro e fargli capire che ascolti, ormai non hanno altro da fare che raccontare il passato. Ogni tanto anche loro sentono nostalgia della carcassa e allora tornano e parlano tra loro o con chi vuole partecipare. Io partecipo spesso. Tuo padre è molto colto, un tipo che riesce a scherzare spesso facendo battute molto profonde-
Credo di avere a che fare con una persona che fa del suo lavoro una passione un po’ troppo morbosa, lo saluto con molta curiosità e una inquietudine latente.
Vorrei riuscire a decifrare la sensazione che mi sento appiccicata addosso. Quell’omino del cimitero non mi ha trasmesso tranquillità. O era un pazzo furioso o davvero ascolta e capta frammenti di vita passata che ai più sfuggono. Poverino. Lavorare tutta la vita in un posto dove poi le tue ossa riposeranno tutta la morte.
– Scusa, posso farti vedere una cosa?-
– Scusa, posso farti vedere una cosa?-
Di nuovo il custode, mi ha seguito, mi prende sottobraccio e mi porta verso una combriccola di lapidi.
– io lo so che te ne stai andando via, ma te ne stai andando convinto che nulla ti stia quadrando, io voglio farti vedere dove vive ciò che credi sia tuo padre-
Mi lascio condurre, non so perchè.
-questo è il cimitero dove sono sepolti i principi Lanza di Scalea, lo sapevi?-
-no-
-però loro, rispetto a tuo padre non hanno la vista sul mare, vedi che la morte restituisce quello che la vita crede di togliere?-
-la matematica del fato-
-bella espressione, me la tengo- dice il custode con aria tesaurizzante – ma ho da dirti altro, vedi questa tomba? Qui è sepolto Luigi Mercantini-
-e chi è?- ometto il rafforzativo “minchia” in mezzo alla frase, non mi pare rispettoso
– è l’autore di quella poesia dove c’è la frase eran trecento eran giovani e forti e sono morti-
-ah si..quello che ha il virus di Angelo Branduardi-
– e che è?- ora sono io che ho incuriosito lui
-Branduardi dice che i bambini non conoscono il suo nome, ma se gli dici “quello che ha scritto la fiera dell’est” collegano subito-
-si, si, ora ho capito, ma adesso vieni, ti faccio vedere l’ultima cosa quella che deve farti quadrare tutto, ecco, ci siamo quasi, guarda qui-
– questa è la tomba di Paolo Borsellino..-
– lo sapevi che era qui?-
-si, ma non lo pensavo sepolto così vicino a mio padre, non ero mai venuto a guardare da questo lato della strada-
– bene, adesso vai, devo chiudere, anche se siamo a Palermo, dove non dovrebbe esserci foschia, disperdi la nebbia che vedi, tutto ti sarà chiaro, ricordati di dare un nome-
Ultima frase, accompagnata da clangore di cancello.
Vado verso la macchina, bel modo di tornare a Palermo, domani prendo servizio al commissariato del mio quartiere.
Commissario Maltese, questo è sicuramente il primo mistero che ti hanno proposto, domani te ne aspettano di peggiori.
Com’è che ha detto? “Dai un nome…” di sicuro mio padre è sepolto meglio di altri che non godono la sua vista sul mare.
Ma è in buona compagnia, che significa “dai un nome?”
Nome..mio padre si chiamava Giovanni Maltese, Giovanni. Ora quadra tutto, o meglio almeno quadra dentro il mio cuore.
Giovanni, accanto a Paolo. Non può esistere Giovanni senza Paolo, anche se non è quello giusto. Mio padre porta un nome nei paraggi. Forse Paolo, in mancanza dell’originale si fa bastare un supplente.
Chiudo lo sportello, sorrido. Mistero risolto. O no?