Sicilia – Agrigento – Non poteva mancare una rappresentanza dei familiari delle vittime innocenti di mafia all’interno di un’associazione come “Libera”, impegnata nel sollecitare la società civile nella lotta alle mafie. Un coordinamento di oltre 1500 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base, territorialmente impegnate per costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità, che ben presto avrà il suo presidio anche nella città di Agrigento.
Alla presenza del responsabile regionale di Libera, Umberto Di Maggio, si sono riuniti i familiari delle vittime di mafia dell’agrigentino, per eleggere un portavoce che faccia da tramite con il nazionale.
Due sole le candidature. Quella di Antonella Borsellino, alla quale hanno ucciso il padre e il fratello, e quella di Nico Miraglia, figlio del sindacalista ucciso dalla mafia.
Per quanti non li conoscevano ancora, alcuni dei presenti hanno raccontato brevemente le loro storie.
Antonella Borsellino ha raccontato dell’omicidio dei suoi congiunti, avvenuto a Santa Margherita Belice, e del suo impegno in favore di una cultura della legalità.
È stato poi il turno di Leonarda Gebbia, il cui fratello Filippo venne ucciso in quella che viene ricordata come la “prima strage di Porto Empedocle”.
Quella sera di settembre del 1986, Filippo, trentenne ricco di belle speranze e della gioia di vivere, passeggiava con la sua ragazza lungo la strada principale del paese. Il sogno delle nozze, che finalmente stava coronando. Mano nella mano con la sua ragazza, entrò dentro il bar. Poi fu il blackout. Le raffiche rabbiose dei kalashnikov.
Tornata la luce, riversi a terra rimangono i corpi di Giuseppe Grassonelli, del figlio Gigi, di Giovanni Mallia, Salvatore Tuttolomondo e quelli di due vittime innocenti, Antonio Morreale e Filippo Gebbia.
Leonarda, la sorella di Filippo, ricorda ancora di come costretta a passare dal luogo della carneficina, rimase impressionata dai fori delle raffiche di mitra sulle pareti. Un ricordo indelebile, il cui dolore le viene rinnovato dalla voce della madre che continua a volte a chiamare Filippo. Ma Filippo non può risponderle più.
A raccontare di Gaetano Guarino, è il figlio della cugina, Lino Valenti.
Guarino, il 2 ottobre del 1944, su proposta del prefetto di Agrigento, viene nominato sindaco di Favara. Un incarico dal quale si dimette meno di un anno dopo. Ispirandosi forse alla “Madre Terra” di Accursio Miraglia, costituì una cooperativa agricola e lottò accanto alla povera gente che chiedeva l’attuazione delle leggi Gullo-Segni che destinavano alle cooperative i terreni incolti appartenenti ai latifondi.
Il 10 marzo del 1946, venne eletto sindaco di Favara, con il 59% dei consensi.
Un colpo di lupara alla nuca, fu il “voto di sfiducia” da parte della mafia rurale, che non gli perdonava le sue battaglie e mise così fine alla vita e alla carriera politica di Guarino, appena 65 giorni dopo che questi aveva vinto le elezioni.
Il figlio di Guarino – racconta Lino Valenti -, lasciò il paese a seguito delle minacce che subì. Ma neppure la vita dei parenti di una vittima innocente di mafia è facile qui da noi – così come racconta Valenti, dove sembra quasi ci si debba vergognare d’esser parenti di un morto innocente.
Giuseppe Ciminnisi, racconta di quel 29 settembre 1981, quando a San Giovanni Gemini vennero uccisi Gigino Pizzuto, capo mandamento di Castronovo di Sicilia e due vittime innocenti che pagarono il fatto di essersi trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato. Michele Ciminnisi, papà di Giuseppe, e Vincenzo Romano .
Da quel giorno, quando Giuseppe aveva soltanto 14 anni, ha perseguito sempre un sogno. Sapere chi furono i mandanti di quella strage. Nel dicembre 2010, la Corte d’Assise di Agrigento, per quei morti ha condannato in primo grado all’ergastolo Salvatore Riina e Bernando Provenzano (leggi l’articolo).
Durante le fasi del processo emersero fatti nuovi che portarono a un’altra operazione antimafia.
Giuseppe Ciminnisi, già presidente dell’associazione che portava il nome del padre e di Romano, l’altra vittima innocente della strage, è sempre stato vicino a tutti gli altri familiari di vittime di mafia, spendendosi con caparbietà, coraggio e desiderio di giustizia.
Giovanissima la figlia di Antonio Valenti, la quale in preda all’emozione del “ricordo-non ricordo” della figura paterna, non riesce neppure a parlare. I ricordi che ha del padre sono quelli che gli hanno tramandato amici e parenti. Quell’8 maggio 1982, lei è solo una bambina di tre anni che ha perso il padre sotto una micidiale scarica di pallettoni destinati ad altri.
A Porto Empedocle, dietro un silos, si appostano i killer inviati dal boss Carmelo Colletti per uccidere i Traina che avevano aperto uno stabilimento di frantumazione di inerti a Cattolica. Doveva essere la punizione per avere infastidito un cugino del Colletti, che operava nello stesso settore.
A terra, rimasero Giuseppe Lala e Domenico Vecchio di Porto Empedocle, e Antonio Valenti di Favara. Tre operai intenti nel loro lavoro presso l’impianto di calcestruzzi, colpevoli anche loro d’essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Toccanti più di mille parole i silenzi della ragazza che a malapena è riuscita a bisbigliare un “no” all’invito dei presenti ad intervenire.
Una bambina ormai donna, con quel qualcosa dentro che accomuna in maniera indissolubile quanti hanno vissuto drammi analoghi. Un padre che non ha visto crescere la figlia, e una figlia che non ricorderà la carezza di un padre. La mafia riesce ad uccidere una parte anche di chi resta vivo.
Ultimo a prendere parola è Nico Miraglia. Nico Miraglia figlio del sindacalista Accursio Miraglia, ucciso nel 1947 per essersi messo contro le istituzioni dell’epoca e non solo contro la mafia, prima di fare un breve cenno alla sua storia invita la figlia di Antonio Valenti ad aprirsi, a vincere emozioni e paure e cominciare a parlare del padre. A farlo anche con chi lo ha conosciuto, così come lui stesso ha fatto. Entrambi, hanno in comune qualcosa. Quando venne loro ucciso il genitore loro avevano circa la stessa età. Anche Nico sa cosa significa vivere del ricordo tramandato, senza potere cercare nella propria scatola dei ricordi il calore di una carezza paterna.
Un atteggiamento quasi paterno quello di Nico, da parte di un uomo cresciuto senza un padre e rivolto a una ragazza anche lei senza padre.
La commozione tra i presenti è qualcosa di palpabile.
Finiti gli interventi si va al voto, che, contrariamente a quanto annunciato, viene reso palese dagli stessi votanti. Pochi voti e la stessa Borsellino annuncia che anche il suo voto andrà a Nico Miraglia. Eletto all’unanimità dei voti.
Ci soffermiamo a scambiare due parole prima di andare via. C’è sempre qualcosa da apprendere, da conoscere in più. Particolari inediti – almeno per noi -, come quello dell’anomalo tentativo di sequestro subito da Nico quando aveva appena otto anni, o il furto di un quadro dipinto dal padre – senza che portassero via altro -, dopo che Nico aveva rilasciato un’intervista a una giornalista alla quale venne poi bruciata la macchina. Fatti conosciuti, come i colpi di pistola esplosi contro il pulmino della fondazione quando fondò la stessa. Tre colpi di 7,65. Lo stesso calibro usato per uccidere suo padre.
Quel padre la cui frase “meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”, venne ripresa anche da Che Guevara.
Ma anche fatti coperti da un fitto mistero. Come il patto russo-americano (patto di Yalta), ricollegabile ai documenti dei servizi segreti americani – visionati da Nico -, desecretati venti anni dopo, che dimostrerebbero come vi fu una sorta di patto tra l’allora governo americano, quello italiano, lo Stato Pontificio e la mafia.
Ciò si evincerebbe anche da quanto riportato da uno dei documenti dei servizi segreti, nel quale veniva palesata la necessità di agire senza aspettare che De Gasperi cacciasse i comunisti dalla Sicilia. “Decideremo noi, dove, come e quando agire” veniva dichiarato.
Era il 1947, l’anno in cui veniva ucciso Accursio Miraglia. L’anno della strage di Portella delle Ginestre, di quella di Partinico, alle quali fecero seguito un’interminabile serie di delitti mafiosi, tra i quali quello di Placido Rizzotto e quello del sindaco Guarino di Favara.
Fatti datati quelli di Guarino e Miraglia? Per il Ministero degli Interni italiano, l’omicidio Miraglia è ancora coperto da segreto di Stato. Da parte nostra “No Comment”…
Ma dai racconti vengono fuori anche aspetti orrendi che ci danno l’esatta dimensione di cosa significhi la parola mafia. Ad esempio una delle testimonianze rese da Giovanni Brusca, il quale nel dichiarare di non comprendere perché lo definissero un mostro, narra dell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo e di come mentre ne scioglieva il corpo nell’acido, lui stesse mangiando un panino.
Un episodio “normale” per colui che si è paragonato ad un soldato che combatte ed esegue solo degli ordini. Uno dei giurati presenti in aula, venne colto da malore.
Ben venga dunque il presidio di Libera ad Agrigento. Terra nella quale in fatto di “normalità” più o meno scabrose ci sarebbe molto da ridire.
Gian J. Morici