Marco guardò Lisa che usciva dall’acqua. Si era riempita di olio solo pochi minuti prima. “Con il caldo che fa finirai fritta”. Lei gli aveva sorriso. Con il sorriso di sempre. Quel sorriso che avrebbe potuto essere suo, che era stato suo. Le percorse con gli occhi la pelle dorata, tesa, coperta di mille bollicine d’acqua illuminate dal sole. La pelle che per anni aveva accarezzato nei sogni di notti insonni e in quelli ad occhi aperti, in quei giorni grigi di vita in cui solo i ricordi di quello che eri ti aiutano ad affrontare quello che sei.
Erano passati quanti? Due anni forse? Due anni in cui di lei non aveva saputo più niente. Non che non ci fosse abituato. L’ultima volta che si erano voltati le spalle di anni ne erano passati quasi venti. Lisa era poco più di una ragazzina allora. E lui, Marco, era in quell’età in cui si fanno, per amore o per forza, delle scelte di vita. Roba tipo famiglia matrimonio figli lavoro. Roba tipo fine dei giochi sei uomo. Quando la aveva vista aveva visto il sole. E il giorno e la notte insieme. E la primavera e l’inverno e il freddo e il caldo. E’ lei. Ma lei era di un altro. Lui aveva dimenticato tutto, tutto guardandola, tutto bevendosi con lei le notti rubate alla sua vita che stava cambiando, nelle luci di quella grande città riflessa nel nero del mare delle notti d’autunno. E mentre le raccoglieva le lacrime e le parole che gli bruciavano l’anima, quelle che avrebbe voluto per sé e che invece erano per un altro, aveva dimenticato che anche lui aveva qualcuna che forse in quello stesso istante piangeva per lui. Qualcuna che stava cambiando la sua vita con lui. Lisa gli riempiva la testa, l’aria, l’acqua, il cibo. E gli faceva male. Male in quel posto dell’anima in cui gli uomini chiudono il libro dei sogni quando arriva il momento di aprire gli occhi e crescere. O di chiuderli, a volte. E gli faceva bene. Gli faceva bene la sua leggerezza, la sua allegria, il suo coraggio, anche quella sua spavalderia a nascondere i suoi segreti e la sua fragilità. Ma Lisa aveva un libro da leggere nel quale lui non c’era. O nel quale non riusciva a vedersi. Perché l’unica cosa che vedeva stringendola a sé era che lui non avrebbe mai provato a fermarla. Lei veniva prima. E anche lui aveva un libro da leggere, nel quale già stava scrivendo da un pezzo insieme ad un’altra. Staccarsi da lei, da Lisa, decidere di farlo e farlo fu come tagliarsi un braccio, come cavarsi un occhio, come tornare a nascere, tagliare ancora il cordone ombelicale e vivere la morte. Perché con lei moriva quel qualcosa dentro di lui che gli aveva chiesto sempre, da sempre, di cercare. Di non smettere mai di farlo. Lisa non seppe mai niente. Non seppe del suo amore, non seppe del dolore, non seppe neanche delle ricadute. Delle volte in cui Marco riprovò a cercarla, quando quella voce dentro ricominciava a divorargli l’anima. Per Lisa Marco era stato un vigliacco. E un falso anche. Uno che le aveva mentito. Senza neanche un motivo valido, visto che neanche ci aveva provato. Perché Lisa quello che Marco con lei dimenticava lo aveva saputo. E una sera glielo aveva anche gridato in faccia. Senza neanche chiedersi contro cosa urlasse. Si era portata dentro questo Lisa. Questo e quelle braccia che le avevano abbracciato la paura davanti al mare. Questo Marco non lo aveva mai saputo. Fino a venti anni dopo. Quando si erano ritrovati per caso. Quando il caso aveva deciso di farli ritrovare. E tra un gioco e una battuta, tra un ricordo e una recriminazione, era venuto fuori tutto. Tutto insieme a venti anni di vite che avevano viaggiato e a lungo su binari che non avrebbero mai sospettato di doversi, di potersi riunire.
La prima volta che Marco chiamò Lisa fu quasi comica. Riascoltare dopo tanto tempo le voci, l’uno dell’altra, quelle voci che riaccendevano uno per uno quei fili invisibili che tessono le nostre memorie, allungò a dismisura i silenzi, svuotò di senso ogni parola, al punto che avrebbero potuto recitare l’alfabeto greco o la tavola pitagorica o dedicarsi all’istante poesie e canti d’amore, e di tutto quanto non sarebbe rimasto che il suono. Il suono che nella testa diventava braccia, diventava sorrisi, diventava canzoni, diventava rabbia, e dolore, e silenzio, e orgoglio, e paura. E diventava sogni. Sogni e desideri che venti anni prima si era schiantati contro un muro per entrambi, un muro che non c’era se solo avessero provato ad attraversarlo. Che adesso però c’era eccome. E si chiamava già vita, figli, famiglie, lavoro, distanze. Distanze.
Mentre Lisa riallungava il telo sulla sabbia calda accanto a Carlo, e si stendeva al suo fianco sfiorandogli la schiena con le mani ancora piene dell’acqua raccolta dai suoi indomabili capelli, strappandogli insieme un brivido e un sorriso, Marco pensò che quella era stata una delle ultime parole che due anni prima Lisa gli aveva vomitato contro. Che aveva vomitato contro la sua vigliaccheria. Gli aveva rinfacciato tutto Lisa. Tutte le parole, tutti i silenzi, tutti i ricordi, tutte le scoperte. Tutto. Anche gli occhi, le mani, le braccia, i pensieri, i sogni. Aveva fatto un sacco di tutto quello che in un anno si erano regalati e negati e glielo aveva aperto, riletto e fatto a pezzi sotto gli occhi, a pezzi minuscoli che aveva sparso al vento, perché più nulla potesse riunirli. “Il tuo unico coraggio era la distanza, la tua unica difesa. Se fossi rimasto lontano avresti giocato questo gioco per sempre, rubandomi sogni che non ho mai sognato, disegnandomi vite che non avrei mai vissuto, regalandoti l’unico spazio che puoi regalare a quelle piaghe dell’anima che non sei riuscito a sanare, lo spazio di un tempo senza luoghi senza fatti senza compromessi che è uno spazio ipocrita come tutto quello in cui hai scelto di vivere”. Non gli aveva concesso repliche. Gli aveva girato le spalle come venti anni prima ed era sparita. Lasciandogli addosso un dolore spaventosamente simile e spaventosamente diverso da quello di allora.
Carlo si era avvicinato a Lisa intanto e le accarezzava piano la pancia, le parlava piano, all’orecchio, e lei sorrideva. Carlo. Era stato lui a portargliela lì, sotto casa, che lei sicuro non ne aveva neanche voglia di rivederlo. Anche a lui non lo vedeva da almeno due anni. Anche di lui non aveva saputo più nulla. Di tanti non sapeva più nulla da anni Marco. Di tutti quelli che avevano riempito la sua vita prima che cambiasse. Di tutti quelli che uno alla volta sua moglie aveva cancellato dal quel libro che avevano cominciato a scrivere insieme e che lui non era stato capace di chiudere mai, neanche tutte le volte che avrebbe voluto farlo a pezzi perché lo stava divorando. E non aveva neanche combattuto più di tanto. Per difendere dei nomi, dei volti, degli spazi, dei ricordi. Per tenere una delle due penne nella sua mano. Per quieto vivere. Per amore dei figli. Per dovere. Per scelta. Per paura. Di ricominciare daccapo. A cercare, a sentire la vita, a soffrire, a piangere a ridere a giocare. Ad amare. Per vigliaccheria. Lisa aveva ragione.
Lisa gli aveva restituito tutto. Gli aveva dato tutto. Aveva attraversato quel muro che venti anni prima non c’era e aveva abbattuto quello che si era costruito intorno in venti anni. E gli aveva regalato l’anima. E quando lui le aveva detto non posso, io non posso tornare indietro, lei gli aveva ancora sorriso e gli aveva detto non voglio. Ti restituisco le braccia che per venti anni hanno abbracciato la mia paura e abbraccio la tua. Tu vieni prima. E gli era rimasta accanto. Gli aveva colorato le ore grigie e quelle stinte e rammendato i giorni di rabbia, di dolore di incomprensione di ribellione. E aveva continuato a farlo anche quando Carlo le aveva invaso la vita. Io resto, gli aveva detto. Ed era rimasta, come era rimasto lui a raccoglierle di nuovo lacrime e parole che erano state sue e che adesso erano di un altro. In una storia che si era ripetuta. Spaventosamente uguale e spaventosamente diversa. Lisa era la stessa di venti anni prima. Fragile e spavalda. Ed era la luce del sole. Vera. Pulita. E la luce della notte. Di quelle notti limpide e piene di stelle. Quelle stelle che gli diceva che erano i suoi occhi che sarebbero rimasti a seguirlo sempre. Anche adesso che erano di un altro. Ma anche lui era rimasto quello di venti anni prima. Quello che aveva spento la voce che gli gridava dentro. Quello che aveva ceduto la penna con la quale ognuno di noi scrive il libro della sua vita. Quello che aveva smesso di cercare e combattere. Venti anni fa lo aveva fatto per lei. Due anni fa lo aveva fatto contro di lei. Per paura, per vigliaccheria, per l’incapacità di gridare voglio solo spazio, voglio un rigo in questo libro, voglio scriverci anche io, voglio sentirlo e sceglierlo, aveva accettato di cancellare anche lei, di relegarla al buio, al silenzio, all’ipocrisia di un’amante, che amante non era mai stata. Proprio mentre Lisa lo stava abbracciando perché lui aveva di nuovo paura. E proprio mentre lei aveva bisogno di braccia a stringerla perché aveva scelto affrontare le sue di paure.
Erano passati due anni. La sua vita era rimasta quella di sempre. Di due anni prima, di venti anni prima. La vita che Marzia scriveva per lui, che aveva smesso di scrivere. Quando Carlo lo aveva chiamato quella mattina aveva preso la cosa come prendeva ormai da sempre tutte quelle cose che dal suo passato venivano a portare scompiglio nelle pagine che Marzia amava tenere in ordine. Era contento e non poteva nasconderlo. Non poteva nasconderselo per nasconderlo a Marzia. Ma era teso. Sapeva che avrebbe pagato ogni istante. Carlo voleva andare al mare, come ci andavano da ragazzi. Ma Marzia non c’era e la cosa non le sarebbe piaciuta. E lui voleva andarci al mare con Carlo, che Marzia al mare non voleva più andarci ed ogni volta era una battaglia. Era stato a combattere con se stesso per quasi due ore, il tempo che Carlo gli aveva detto che avrebbero impiegato a raggiungerlo. Avrebbero? Quindi Carlo non era solo. Il che forse da un lato era meglio. Marzia non avrebbe potuto dirgli che andavano a dar la caccia alle ragazzine come quando erano giovani. E poteva raggiungerli quando rientrava. O potevano stare insieme a cena. Quando Carlo arrivò sotto casa era ancora a telefono con Marzia a tranquillizzarla. Scese con il cellulare in mano, per farle salutare Carlo, che si convincesse almeno che era con lui, che non vedeva da due anni, che stava scendendo. Al diavolo l’espressione che Carlo gli avrebbe fatto, la stessa che gli aveva fatto quando aveva conosciuto Marzia la prima volta. Carlo parlò con Marzia. Poi gli disse ti ho portato una persona. Lisa, il sole, il giorno, la notte, il freddo, il caldo, scesero dalla macchina e gli sorrisero andandogli incontro. Le braccia di Carlo a proteggerla.
Cinzia Craus