“Maledetti i ricordi, le memorie, le urgenze. E maledetta la mia testa che asseconda tutte le mie insane follie!”. Nel vicolo stretto assediato dalle antiche costruzioni del centro spicchi di sole violentavano l’oscurità nella quale avrei preferito sparire. Rannicchiata nell’esile ombra dell’immensa cornice di piperno che coronava il portone di accesso all’ultima delle mie pazzie, maledivo i sacchetti di plastica della spesa che mi tagliavano le dita. Perché avevo fatto la spesa. Da vera cretina. Avevo pensato che così se qualcuno mi fermava, ammesso che fossi riuscita ad entrare, avrei potuto dire che ero lì per portare la spesa. A chi? Ecco, la domanda non mi era venuta che se no adesso avevo le mani libere e magari potevo prendermi a schiaffi. “Potrei leggere i nomi sul citofono e buttarne lì uno a caso”… siiiiiii, che tanto li conosco ancora tutti i nomi di quelli che vivono qui, dopo quasi trenta anni, e magari sparo proprio il nome di quello che mi fa la domanda… due volte cretina, anche perché io a quel citofono non avevo neanche avuto la forza di accostarmi. Anzi tre, tre volte cretina, perché quante volte, dieci, cento, da studentessa e poi per lavoro, avevo bussato a porte di sconosciuti perché dovevo fare un’accidenti di studio, di ricerca, di rilievo, di raccolta di immagini? Mi portavo la macchina fotografica, il metro e la mia spavalderia e in cinque minuti sarei stata dentro, altro che sacchetti della spesa! Ma forse i sacchetti avevano anche essi un senso, anche quelli facevano parte del luogo della memoria. Intanto non potevo continuare a star lì spalle al muro, immobile, senza neanche che so fumare, fingere di stare a telefono, guardare l’orologio come per mimare un’attesa. Un paio di ragazzetti già erano passati due tre volte in motorino e non ero riuscita a capire se i loro occhi avevano iniziato a ridere, ad ammiccare o più semplicemente a misurare il volume della mia borsa. Un anziano signore a passeggio col cane non mi aveva degnato di uno sguardo. All’andata. Al ritorno aveva fatto un cenno di saluto. O un cenno col capo. Che poteva anche essere una specie di compiacimento per la cariatide con cui il condominio aveva deciso di ornare il portale. La cariatide ovviamente ero io. Decisi che era meglio muovermi. Non so, magari appendere le buste a quella che era stata un rete di un letto appoggiata adesso a mo’ di decorazione al muro di fronte e chiamare qualcuno davvero, per ingannare il tempo. O nell’attesa che mi fossi convinta ad andarmene. Mentre lentamente mi staccavo dal muro che fino a quell’istante mi aveva sorretto, una bambina vestita e truccata da donna uscì dal portone:“Deve entrare?” “Si, io si, devo entrare, grazie” “Le tengo la porta che quella è pesante e si chiude in faccia”.
Ero dentro. L’atrio scuro mi sembrò più angusto di quello che ricordavo. Non era cambiato niente. Il pavimento in lastre di basolo lavico come la strada, i ganci da posteggio in ottone, infissi nel muro, sotto le cassette verdi di ferro smaltato per la posta. Le pareti bianche. Si entrava con i cavalli in quell’atrio. Quando con i cavalli si passava per quelle strade dove ancora ci sono i blocchi cilindrici di piperno, levigato dal lavoro dell’uomo e del tempo, per ancorarci le carrozze dei signori. Bianco e grigio. Come i ricordi. Il grigio scuro delle pietre del fuoco di Napoli. Sulla parete di fondo a sinistra i pochi gradini della prima rampa di scale, a destra la fontana di porfido, dal semplice disegno, con la doppia vasca, a caduta, per i cavalli in basso, sopra per i loro proprietari. Non l’ho mai vista in funzione. Ma l’ho immaginata tante volte.
Infilai la scala, buia come la notte anche in pieno giorno, buia come il corridoio per la seconda rampa e la terza, sulla destra, a tentoni, o a memoria, con le piccole luci, attaccate ad un filo volante e poggiate dentro i supporti in pietra per le lanterne, sempre spente. In cima alla seconda rampa un po’ di luce sullo strettissimo e tortuoso corridoio di servizio. Quando ero bambina mi era capitato di chiedermi perché avevano costruito un palazzo come un labirinto. Credo di essermelo chiesta anche quel pomeriggio, da grande, mentre contavo i passi nella mia testa senza accorgermi che lo stavo facendo proprio come tanti anni fa, quando lo facevo per essere sicura di non perdermi. Alla seconda svolta del corridoio ecco arrivare la luce, di fronte alle scale per il piano “nobile” , dall’accesso al cortile. Accesso al cortile. Una specie di ferita di sessanta centimetri per un metro e cinquanta in un muro spesso almeno altrettanto. E tre gradini alti almeno trenta centimetri per attraversarla. Da scalare quando sei bambina. Ma ne valeva la pena.
Il cortile. O più correttamente il terrazzo di copertura di uno dei livelli del fabbricato. Ma noi non lo sapevamo. Io e i miei fratelli. Era il nostro cortile. Nonostante la fatica correvamo all’impazzata su quel pavimento povero in graniglia rosa e grigio pieno di avvallamenti e pendenze. Pieno dei segni delle campane e delle settimane tracciate con il gesso e ricalcate cento volte. Umido delle lacrime per un pallone perduto. Ferito dalle frustate delle nostre corde per saltare. Macchiato e colpevole del sangue delle sbucciature. Ma questo veniva dopo. Correvamo prima, fino in fondo. Fino a quella che a noi sembrava una casa sul tetto di un palazzo. Quasi lo stesso di una casa su un albero. Io e i miei fratelli. E guardavamo in alto verso quel terrazzino pieno di fiori, dove pranzavamo nelle giornate di sole fingendo di essere al ristorante. Guardavamo sperando che non ci fosse nessuno affacciato a rovinarci il gioco di bussare e nasconderci. Un gioco che si ripeteva ogni volta. Salivamo l’ultima rampa di corsa. Poi ci nascondevamo. C’erano mille buchi in cui nascondersi. A turno, ma vincevo sempre io, che ero la più grande e o vincevo o vincevo, uno bussava alla porta e poi scappava.
Quando la porta si apriva non importava che cosa ci stesse sul fuoco. Quello che usciva dalla porta era l’odore della nonna. Che fingeva di arrabbiarsi perché non trovava nessuno. Finché non le correvamo tutti incontro, no, ci aggrappavamo a lei, ridendo come matti. Era mia ovviamente. La nonna. Più che degli altri, perché io ero venuta prima. Ed era sottinteso, per tutti.
Dopo che la nonna morì per anni non tornai in quella casa. Non ci riuscivo. Il nonno veniva a casa a volte, spesso. Con il suo cane. Aveva un cane da quando la nonna non c’era più. Gli lavava i denti e gli comprava la coca cola. Poi, più tardi, quando in estate per studiare ero costretta a restare in città, più spesso per inseguire il mio cuore e i miei amori, mentre gli altri andavano in vacanza, ripresi ad andarci. Perché in fondo eravamo soli entrambi, io e il nonno. E con lui era facile restare da soli anche stando insieme. Non gli piaceva tanto parlare. Gli portavo la spesa e cenavamo insieme. A volte restavo a dormire lì, nel letto enorme e altissimo della nonna, dove lui non dormiva più da anni. Quel letto dal quale la nonna lo aveva cacciato quando era morto il più piccolo dei loro figli. A diciassette anni. Il giorno in cui nonna morì aveva addosso una maglia di Italo. Aveva deciso di andare da lui. Nonostante me. Quel letto odorava ancora di lei, dopo tanti anni. Anche il bagno odorava di lei.
Percorsi lentamente il cortile. Il terrazzino in fondo era pieno di fiori. Chi ci abitava adesso doveva averlo trovato così e doveva averlo amato subito. A metà strada mi fermai. No non era il cuore a battermi forte per l’emozione, né la stanchezza nelle gambe. Né i segni di campana a terra. Non ce ne erano. Non si gioca più a questi giochi. C’era vento. Un vento caldo che veniva da lontano e che sapeva di terra. Posai le buste e mi stesi a terra. Braccia e gambe aperte a misurare lo spazio dei ricordi e del tempo. Il vento portava le voci di tre bambini terribili. E il profumo della nonna. Che stavolta si era affacciata al terrazzino e ci aveva rovinato la sorpresa. Capita.
Cinzia Craus
un bel racconto Cinzia Craus, ti camminavo dietro dietro