“Ahi!”. Ogni maledetta volta la stessa storia. Eva odiava questo volontario supplizio delle sopracciglia. Perché accidenti doveva star lì a farsi gratuitamente del male? Perché non poteva esser nata con occhi grandi come albicocche mature, sì il suo frutto preferito, quello le era venuto in mente, e sopracciglia sottili e invisibili, così da risparmiarsi quello strazio continuo? Volontario poi! Definirlo volontario era un eufemismo che con la realtà dei suoi pensieri in quel momento aveva poco a che fare. Un tributo all’immagine, questo era, all’immagine che gli altri, che quelli fuori, avevano di lei. Di lei che di quella immagine se ne importava ben poco da sempre. O da ieri. O da quando tanti anni fa se ne era innamorata. O da quando lui se ne era andato. Non è che contasse molto. Il da quando, non lui.
Gli occhi le si velarono di lacrime. Istintivamente si avvicinò allo specchio per godersi quello spettacolo che le regalavano. Questo magari poteva essere un motivo valido per farsi gratuitamente e deliberatamente del male. L’iride nocciola cominciò a riempirsi di pagliuzze sottili del colore mieloso dell’ambra illuminando e restituendo alla luce la matrice verde che sua madre le aveva insinuato nel DNA, abilmente nascosta in quel miscuglio di colori che ne era risultato. “Hazel eyes”, in inglese si chiamavano così quegli occhi mutanti, che la catturavano da quando era bambina. Quando si chiedeva perché non le fossero toccati gli occhi azzurri di suo padre, piuttosto che quegli occhi che svelavano le emozioni che lei si era tenacemente educata a nascondere. Obbligandola a sfuggire agli sguardi abbassando la testa. La testa che chi la conosceva bene la costringeva a rialzare. A volte li odiava. Loro, gli amici che amava, che le tiravano su il capo passandole una mano sotto il mento per leggerle gli occhi. O che si abbassavano per raggiungerli senza toccarla, che quel contatto non modificasse in qualche modo il disegno delle emozioni.
Autunno. I suoi occhi avevano dentro l’autunno e i suoi colori. E i colori del bosco. E lei si ricordava che non amava né l’uno né l’altro. Che era la stagione del declino e della morte. E il luogo senza segni e senza tempo dove sei sospeso e perso, senza direzioni, senza flussi. L’acqua. Avrebbero dovuto avere il colore dell’acqua i suoi occhi, dei fiumi che disegnano percorsi, del mare dove finiscono e che non si ferma. O del cielo dove volano i gabbiani. O meglio le aquile. Sulle montagne più alte, cariche di neve, che lei amava tanto quanto l’inverno, quando era freddo e secco, da pungere sulla pelle. E allora dovevano forse essere grigi, perché è grigio il colore dell’inverno anche quando è pieno di luce.
Eva guardava il fiume quel giorno. Il fiume di una città non sua. Il fiume della città rifugio. Era scappata lì quell’inverno, mentre Stefano digeriva gli incubi della sua scelta, della sua non scelta. Perché non c’era mai stata una scelta. Lui non sapeva farne. “Se mi avessi amato davvero avresti lottato per me”. Anche questo le aveva detto con rabbia un giorno. Le scelte toccano sempre a noi. Alle donne. Che scelgono di essere donne, che scelgono di essere uomini, che scelgono di essere bambine, che scelgono di essere puttane; che scelgono di essere vere, di essere false, di essere amanti o di essere mogli. Che scelgono di vedere o di fingere di non vedere. Che scelgono di fare male o di farsi male. Che scelgono di essere figlie o di essere madri. Eva aveva scelto di essere madre su quel fiume. Come vicino al mare, questa volta il suo, aveva scelto di essere silenzio e di amare senza armi, di non combattere. Non li conosceva gli uomini allora, nonostante quelli che da amici, da compagni, da amanti avevano fatto pezzi di strada con lei, disegnato tratti del fiume della sua vita che un giorno sarebbe arrivato al mare. E le era sembrata oscena e incredibile quella frase quella sera, le parole di Stefano che le comunicava la sua scelta, la sua inevitabile scelta, la sua non scelta: “Mi sveglio nel cuore della notte senza respiro, sconvolto all’idea di dovere rinunciare a te per sempre… ma la vita reale non è fatta di emozioni, di batticuori, di follie, di voli…. Sposo Silvia, è la cosa giusta per me”. Non aveva alzato la testa Eva e Stefano non le aveva cercato gli occhi. Quegli occhi nei quali c’erano già quelli di suo figlio.
C’erano voluti anni e percorsi, e incontri e scontri, con altri fiumi, amici o compagni o amanti, e silenzi e urla, e lacrime nascoste o regalate, per capire un’altra frase di Stefano, quella di una delle tante volte che aveva provato a staccarsi da lei: “Mia madre ha quasi settanta anni; mio padre è morto quando io avevo otto anni. Lei ha tirato su sei figli da sola. E mia sorella è pazza. Tutto questo le basta. E vuole bene a Silvia” .
C’era voluta la fuga di Carlo. Di Carlo che l’aveva cercata per venti anni. Di Carlo che l’aveva sognata. Di Carlo che l’aveva persa. Di Carlo che l’aveva ritrovata. E risognata. Che usciva con un’improbabile scusa la domenica mattina perché non ce la faceva ad aspettare il lunedì per risentire la sua voce. Che le aveva detto un giorno: “ E’ colpa tua se ho sposato Sara, colpa tua che te ne sei andata. E colpa tua se poi l’ho tradita cercandoti dove non potevo trovarti. Colpa tua se non sono riuscito a smettere di cercare”. E che poi quando si accorgeva che i loro fiumi si stavano per incontrare le diceva: “Non posso, io non posso. I miei figli hanno bisogno di me. E ne ha bisogno anche Sara. E ho smesso di odiarla per quello che mi ha tolto. E ho imparato a volerle bene per quello che mi ha dato”. Chiudeva ogni porta per giorni. Finché la strada da fare per ritrovarsi non diventava di nuovo un’ infinita salita. Finché Eva non era tornata davanti al suo mare a scegliere ancora di essere silenzio, di amare senza combattere. Questa volta non solo Carlo però, non solo Stefano. Questa volta gli uomini. La loro natura. Quella che esiste a prescindere. E che secoli di “morale”, cultura, educazione hanno palesato e canonizzato. La responsabilità. Delle scelte. Fatte per che, cosa, chi, quando non importa. Non fatte anche, fatte da altri, venute da sé, non importa. Onorare gli impegni. Costanza. Poco importa se solo formale, solo materiale. L’importante è restare. I viaggi, i percorsi, i sogni, sono cose per ragazzi. O per le donne. Per gli uomini si chiamano distrazioni, magnifiche, profonde, intense o leggere, di una vita o di un giorno, felici o dolorose, ma sono distrazioni. Il loro fiume non cambia percorso. Ha argini prepotenti e invalicabili. Ha gli argini delle braccia di una madre. Ha gli argini delle braccia della storia. E della natura.
Anche Francesco che aveva sposato il suo lavoro anni prima adesso le era sembrato più chiaro. E le appariva limpido Fabio, più di tutti, che si ritagliava la vita con gioia e senza colpe, restando al suo posto nel mondo, e regalando l’anima a chi era disposta a prenderne solo dei pezzi.
Eppure si era arrabbiata Eva stavolta. Con Carlo che era andata a salutarla in partenza per le vacanze estive. Adesso che il suo fiume era stato rapito da un torrente in piena libero come il vento. Che le aveva vietato di andare davanti al suo mare a scegliere il silenzio, a scegliere di non combattere. Che le aveva mostrato luoghi in cui poteva fermarsi. Lei che aveva pensato sempre che non si sarebbe fermata mai. Che le aveva devastato ogni confine. Lasciandola più libera di quello che lei sentiva di essere e incatenandola. E poi se ne era andato nello stesso modo in cui era arrivato. Si era arrabbiata davanti agli occhi stavolta sinceri di Carlo, mentre le diceva: “Quale vacanza? Credi che io ricordi cosa sia una vacanza? Non c’è vacanza quando sono con Sara. Sono in vacanza quando sono al lavoro, o quando sono a casa e posso andarmene a fare sport, a giocare a tennis, sapendo che non la lascio sola, che il rimprovero dei suoi occhi sarà quello di tutti giorni. In vacanza pago ogni attimo che regalo a me con la colpa dell’abbandono. Con la colpa e la responsabilità di essere tutto il suo mondo. Padrone di una schiava che non riuscirà mai a desiderare di possedere perché non ha mai tentato la fuga. Schiavo della schiava che da lui dipende. Vorrei fuggire. Lo penso a volte. Andarmene lontano. Lasciare tutto. Poi guardo i miei figli. E guardo anche lei. E so che non posso”. “Cambiala, portala con te, travolgila” gli aveva detto, gli aveva urlato. Ma anche questa è una scelta. E per fare scelte bisogna superare gli argini. O bisogna che qualcuno le faccia per te.
Eva guardava suo figlio a volte. Chiedendosi se le sue braccia avessero fatto di lui un torrente in piena o un lento fiume.
Quel giorno, sul motorino con Livia, Eva guardava quel fiume lento di quella città che lei non aveva mai amato molto. Non la sua città rifugio. Livia guidava. Non guardava i suoi occhi che si riempivano di pagliuzze sottili del colore mieloso dell’ambra.
di Cinzia Craus