-Ascolta il cuore del tuo amico- Accostava l’orecchio al suo petto, con cautela, rendendosi leggero. Sentiva subito il suo respiro, le salite e le discese dello stomaco, e poi, in ultimo, distingueva i colpi del cuore. Va veloce il cuore di un bambino. -Ecco, cosa senti? Avverti il suono del suo cuore, come fa?- Non rispondeva, socchiudeva le labbra e spalancava gli occhi.
Era solo un ricordo, ma curioso che gli fosse venuto in mente ora, in mezzo al traffico del mattino, di fronte ad un semaforo lampeggiante che aveva deciso di un ingorgo, neppure violento, anzi statico, ipnotico. Nessuno si muoveva. Dai parabrezza delle macchine ci si scambiavano sguardi vuoti e rassegnati. Un mondo di anime rinchiuse. E il tempo di abbaglio dell’occhio giallo, l’unico funzionante del semaforo..Toc, toc, toc, toc..fa toc toc, come se uno bussa alla porta..rispondeva poi…- e il suo respiro, come fa il suo respiro?-..Lui tirava su la testa dallo stomaco del suo compagno, e diceva:
-Fruscia-
-Fruscia- ripeteva la maestra e sorrideva. Si alzò un inferno di suoni sbilenchi. Ora le anime avevano lasciato cadere una mano sul clacson, non tutti insieme. Poco per volta le anime dimenticarono di scollare la mano dai clacson e il suono si uniformò. Una lunga interminabile nota, come uno strumento rotto, il segnale elettronico di un cuore immobile. Si sbottonò il primo bottone della camicia. Il nodo della cravatta era già mezzo disfatto. L’ammasso inestricabile di macchine si mosse, divenne rarefatto, si sgombrò l’incrocio. -Qualcuno ha finalmente mosso il culo-Pensò con rabbia. Si infilò in uno spazio libero e sgusciò via.
In clinica c’era il solito silenzio. Ogni volta che entrava nell’atrio, quel silenzio, assieme ai fasci di luce che penetravano dalle vetrate, gli garantiva in qualche modo che lui ce l’aveva fatta. Di più, che aveva lavorato solo per questo.
Il caos frenetico degli ospedali, la buriana continua del pronto soccorso, i lamenti, la concitazione. Ci aveva fatto i conti per cinque anni, e tirando la somma aveva concluso che quella vita non faceva per lui.
Aveva individuato Brandi, lo aveva puntato come un falco fa la ronda ai cuccioli di volpe. Una serie di giri misurati, e di colpi andati a vuoto. Soprattutto per colpa di sua moglie.
-Professore, buongiorno- gli sussurrano, e lui non risponde. Si prende la soddisfazione di assumere uno sguardo preoccupato, concentrato distante, che possa indurre a scambiare la sua palese arroganza, per preoccupazioni profonde, l’intervento di domani per esempio. Tutto come Brandi, pensano, e questa è la sua più grande soddisfazione. Ma a lui perdonano di più, soprattutto le donne, le infermiere, le caposala. Le guarda, dritte negli occhi, dopo averle ascoltate mostrando loro solo il profilo, nell’atteggiamento di leggere qualcosa di importante, mentre credono di parlare ad un muro e a volte si interrompono, e se lui le guarda sussultano.
Entra nel suo studio. E’ in ritardo, ed è la sola cosa che non gli piace sfoggiare della sua condizione: il ritardo, il disprezzo del tempo, la negligenza. In fondo, si dice, in questo è molto meglio di Brandi, o perlomeno questo atteggiamento dimostra le sue origini, la sua provenienza senza “aristocrazia”, il suo essere fuori casta professionale, sociale.
Squilla il telefono. Risponderà la sua segretaria. Poi gli passerà la telefonata.
Ma è in ritardo, vuole iniziare le visite del mattino. Oggi non opera, e qualche fortunato è riuscito a carpire l’appuntamento. Tre note ripetute. La segretaria gli comunica che al telefono c’è Cinzia. Non ha certo voglia di parlare con sua moglie.
– Sono occupato, faccia entrare la prima visita per favore. Ma prima mi porti il questionario che ha già compilato con il paziente.- Per anni aveva lottato contro la cattiva abitudine di ringraziare infermiere e segretarie dopo ogni richiesta. Come faceva invece il Brandi, ironico, meschino, mentre gli strizzava l’occhio e poi diceva:
-Così gongolano tutte- e lui di fronte a sorridere, senza guardarlo, fissando lo sguardo su un quadro, o uno stipite, immaginando di non essere lì… come fanno le donne mentre le violentano, guardano altrove, sono altrove, per salvarsi.
Entra la segretaria. Gli porge la cartellina. La scorre velocemente. Già sa che dovrà fare un lungo discorso su arterie e bypass, ma non gli spiace spiegare, ha già le parole pronte, apre un cassetto ed escono fuori, poco complicate, poco tecniche, ha raffinato questa comunicazione, per questo i suoi pazienti lo adorano, ed anche gli studenti apprezzano questa sua qualità.
-Faccia entrare-
Non va incontro al paziente, aspetta che entri e si accomodi. E’ un uomo, corto, teso, baldanzoso. Un uomo giovane, forse ha i suoi stessi anni, anche se su di lui si è posata una certa stanchezza, una certa rinuncia. Ha la pelle rilassata, lo sguardo incavato, è del tutto stempiato. Sorride.
Gli tende la mano. Poi si accomoda. Parlano. Riferisce di un dolore, a riposo, di un peso, di una stretta. Il suo medico voleva, appena ieri, che andasse ad un pronto soccorso. Ma lui aveva la visita prenotata, da tempo. Inizia ad esaminarlo. Gli frulla in testa una musica ora, e si accorge di avere alcune immagini lontane che vanno a risalire e si frappongono tra lui e le riflessioni automatiche che registra auscultando il paziente. Non senti come è leggero? Non senti come è lontano? Ascolta il cuore del tuo amico. Istintivamente sfiora la pelle dell’uomo con la barretta di metallo del fonendoscopio. Ricorda quando il pediatra la scaldava con il fiato prima di posargli lo strumento sul cuore, o sulle spalle. Poi sorrideva e gli diceva: ora ascolto il tuo motore..
-Dunque dobbiamo fare alcuni esami- Ed elenca un ecografia, una ecocardiografia, una scintigrafia, una coronarografia, ed infine pensa, senza comunicarlo, l’intervento. Potrebbe, pensa, essere un problema che si risolve con una angioplastica, nel migliore dei casi.
Non gli va di guardare il paziente, ma deve farlo. Teme di notare la solita ombra negli occhi, lo sguardo che tenta di rimanere sereno ed invece ricorda una lepre in fuga. Ma l’uomo è tranquillo, attento, concentrato, non vuole perdersi nessuna delle affermazioni del chirurgo. Poi il paziente annuisce e sorride, e lui lo riconosce. Gli sembra buffo che abbia pensato in continuazione alla scuola da bambini ed ora ritrovarsene davanti uno bello e cresciuto che gli ripropone il suono del suo cuore. Controlla il nome sulla cartellina. Non gli dice molto, quanti Roberto ha incontrato nella sua vita, a scuola poi, e quel periodo è davvero lontano, ma lui aveva un modo di stare attento che non ha perso, lui lo ricorda. Ma non dice nulla. Controlla il suo indirizzo. Effettivamente coincide con la zona in cui c’era la sua vecchia scuola. Guarda i suoi abiti. Anche loro coincidono con il quartiere. Potrà pagare? si chiede allora, ma cerca di seppellire quel pensiero.
-Ha qualcosa da chiedermi ancora? Qualche chiarimento?- L’uomo scuote il capo. Ha un attimo di esitazione. Lo guarda:- Dovrò essere operato vero?-
-Anche fosse, la prego di credere che è ormai un intervento di routine, piuttosto veloce, con pochissima degenza. Completiamo gli esami, ma facciamolo velocemente. Vuole ricoverarsi qui?- Lui annuisce.
La mattina è divenuta caliginosa, soffocante. Ma all’interno del suo studio è stabilito elettronicamente il giusto clima. Tutti sono a loro agio. Anche i pazienti nelle stanze, non possono che essere sereni.
Anche la videoconferenza sull’intervento del giorno precedente è pronta sottoforma di dvd sul suo tavolo. Non c’è che da introdurla nell’abitacolo, spingere un tasto. Domani la vedranno i suoi allievi. Alla fine c’è sempre un caloroso applauso. Quegli applausi che lui smanava per Brandi, ora si riversano nell’atmosfera della sala circolare al piano terra dell’ospedale universitario, per lui, per la sua perizia, la sua precisione.
Tre note, alza la cornetta mentre inserisce il disco nel computer. E’ Cinzia. Sono occupato.
Scorre il dvd, poi controlla l’ora. Altre due visite, poi i pazienti da controllare ai piani superiori. Di nuovo il telefono. Sono occupato. E’ il professor Brandi. Sto operando. La segretaria rimane sospesa. Non le era mai capitato che il professore non si precipitasse a rispondere a Brandi. Ma non c’è niente quella mattina che valga a distoglierlo da quell’umore indietro, quel passo nel ricordo, quelle voci che non sono che un riflesso dei sogni mattutini, ma che non lo mollano.
Fuori ha cominciato a piovere.
I corridoi luminosi che danno accesso alle stanze. Alle pareti litografie d’autore, sui tavolini marmi e bronzetti di ottimo gusto. Poltroncine comode al posto dei sedili in fila bucherellati e colorati. E’ l’ora della terapia. Le infermiere appaiono nelle stanze, distribuiscono senza trascinare tristi carrelli rumorosi. Controllano flebo, sistemano cuscini. Può sembrare irreale un reparto così rarefatto, ma è il risultato del suo lavoro, della sua volontà, del suo orrore per la miseria. Ricorda i muri scrostati del suo ospedale, e quelli della scuola, e quelli di casa quando l’umidità lavorava, alla fine di inverni piovosi. Le lenzuola del suo letto da ragazzino, mai calde. Tutte cose che a liberarsene costano. Entra in una stanza. La paziente è seduta su una poltrona. Legge un libro. Di cucina.
Una donna placida. E’ l’ultima visita. Poi tornerà a casa. La lampada vicino alla poltrona illumina una testa in ordine, sbiondita e un po’ canuta. Uscita da terapia intensiva. Ed ora di nuovo a guardare foto di dolci e di arrosti, gli stessi che l’hanno aiutata ad arrivare sul suo tavolo operatorio. Sorride mentre lei alza la testa e lo saluta. Entra nella stanza successiva. Seduto in silenzio c’è il suo amico. Quel Roberto dimenticato. Ora indossa un pigiama. Un po’ in ombra, seduta sul letto, c’è una donna.
–Sto aspettando la risposta delle analisi del sangue, sig. Biondi.-gli comunica. Gli si avvicina e lo controlla. Il suo viso ha ancora quell’aspetto cereo della mattina, gli occhi lo osservano da cavità leggermente bluastre. Istintivamente gli cerca il polso. E poi lo aiuta a sedersi. Una crisi lipotimica. Sente la signora che balza dal letto e si avvicina a passi veloci.
– Suoni il campanello signora- L’infermiera arriva trafelata, lo distendono, gli tengono in alto le gambe. L’uomo si riprende. Qualcuno, alcuni istanti dopo, nella sala medici, fa giungere le analisi. Gli enzimi sono alterati. L’elettrocardiogramma è positivo. L’ecocardiogramma induce al sospetto.
-Non c’è che da fare una tac- ordina. E il suo tono si rifrange.
-Non c’è che da andare a cena fuori- diceva Brandi, la sera che sua moglie Cinzia aveva fallito la cena concessa dal grande cardiologo al giovane medico. Non aveva fatto che agitarsi tutto il giorno intorno alla casa, intorno ai fornelli, nell’imbandire una tavola acconciata come una ballerina. E la cena era stata un grandioso fallimento. Mentre lei snocciolava la ricetta di un deforme soufflè al Brandi che glielo chiedeva con esagerata ammirazione, lui misurava la distanza che in quella stanza lo separava da sua moglie. Dieci passi? Avrebbe voluto non essere lì, e non vedere quello strano elastico di pezza che aveva intorno al polso, il legaccio dei suoi capelli, usato come braccialetto, o i pantaloni delle grandi occasioni con la camicetta nera. O, per giuda, sentirla raccontare del suo lavoro, delle grandi soddisfazioni che le dava, sentirla declamare le meraviglie dell’insegnamento, mentre toglieva le scodelle e si precipitava in cucina sulle sue scarpe di pezza e corda. Poi era ritornata con un vassoio e sopra una torta glassata. Così lei sorrideva. Gentile.
E Brandi rideva: -Anche il dolce, ma che brava!-
Il tecnico della tac si meraviglia quando vede entrare il professore. Hanno già preparato. Roberto Biondi sembra stare benone, ha di nuovo un po’ di colorito, è disteso, la moglie è rimasta in stanza. Preparano il liquido di contrasto. Da dietro i computer il tecnico gli indirizza alcuni avvertimenti.
Poi inizia la scansione. Senti il suo cuore, vedi le sue strade, la sua vita che vi scorre, fluida, senza intoppi fino ad una strada senza uscita. Abbatterò il muro, aveva detto da piccolo, ora ricordava, quando gli avevano chiesto se si fosse trovato un muro davanti, si era espresso, pronto, con la voce acuta, abbatterò il muro. Ora il muro c’era, anzi, quel muro si stava scompaginando.
-E’ l’aorta- dice il tecnico.
-Si,risponde lui, bisogna intervenire, si è già creato un falso lume-
-C’è una dissezione-conferma l’altro. Quella che gli era appena apparsa una ischemia non era che la sua simulazione. Quella che appariva una piccola crepa, non era che la dissoluzione del letto del fiume. Ora calma.
Esce dalla stanza della tac, che si provveda per la sala operatoria. E’ urgente. Pericoloso operare senza aver raffreddato l’infarto. Ma inevitabile.
Scende al primo piano. Entra nel suo studio. Telefona. A Cinzia.
Si, è dalla mattina che lo sta cercando, se ne è accorto. Che non avvenga mai più. Silenzio. L’ira che si è accumulata nel suo stomaco, così vecchia, cosi acida.
Crede che sia lì per rispondere a lei? Ne ha colpa Cinzia, ne ha colpa. Coi suoi sermoncini, le sue imbecillità costruite col materiale di recupero, i quadri con i chiodi, le sue tute sbrindellate, i suoi dolci offerti come trionfi di ghiottoneria. Ne ha colpa, ne ha colpa. Silenzio. E’ molto alternativa, sussurrava Brandi, e sorrideva alla sua di moglie, attillata, biologa del cazzo. Ha colpa Cinzia, ha colpa. E che mai più, dico mai più, si sognasse di ritrascinarlo un’altra volta a quella dannata mascherata con i ragazzini. Silenzio. E’ colpito dall’analogia stretta con il teatro sorbitosi il giorno prima, e i suoi ricordi della mattina. Creature minuscole che ondeggiavano, musiche e colori nuovi, veli che si intrecciano, e il suono delle percussioni. Sul palco, chi comanda è fanciullo. Batte i colpi su un timpano più grande di lui. Chi comanda è un fanciullo.
Ha tutte questa cose da dirle, ma Cinzia non risponde al cellulare. Riaggancia. Va a prepararsi per l’intervento.
Ma prima deve salire da Roberto. Gli deve parlare. Lo fa con tutti i suoi pazienti. L’ascensore lo deposita al piano. Nella stanza Roberto è solo. Gli hanno fatto indossare una specie di tunica verde. E anche lui ha una tuta dello stesso colore, e gli zoccoli. Sembrano più simili ora, più nudi. Gli guarda i capelli radi e ricorda che li aveva lunghi, lisci e biondi, a caschetto, gli occhi verdi, e un piccolo naso e le efelidi, ora è un uomo con un naso importante, gli occhi globosi, e i capelli incolori. Ma il suo modo di ridere, di osservare è identico a quando correvano nel giardino della scuola. Gli spiega la sua patologia. Gli spiega perché debbono operare subito. Gli dice che il suo medico aveva ragione e che lui aveva rischiato ad attendere ma ora è tutto a posto. Tace dell’estensione ai tronchi sopraortici, tace. Perché hai atteso, si chiede.
-Bene, le hanno già fatto la preanestesia?- Roberto annuisce. Mentre sta per uscire, Roberto lo chiama:-Professore, volevo dirle, non so se è il caso, ma magari..io credo di conoscerla, da prima, da quando eravamo bambini.-
Cosa avrebbe detto Brandi? Ecco, non si aspettava questa dichiarazione, che lui lo avesse riconosciuto, ricordato. Brandi avrebbe negato, si sarebbe distanziato. Lo aveva visto fare così con un suo amico prete. Mentre operava ridacchiava:
-Ma chissà dove avrà l’anima questo pretino, chissà..non la vedo. Ecco, fatto, lo lascio a lei. Se muore mi raccomando, se recupera l’anima la metta in bottiglia- ed era uscito dalla sala operatoria. Lo aveva lasciato lì, col prete, e lo staff. Un grande onore lavorare con il suo staff.
Ieri sera una bambina sul palco, vestita da strega: Ora basta, accendi il fuoco, prepara: questa sera mangerò tuo fratello…Veli rossi in mano ai bambini, ogni velo era una lingua di fuoco.
-Davvero? In quale scuola? Non credo- e invece ti conosco. Tua madre dava un passaggio alla mia sulla sua renault di seconda mano. Noi saltavamo dietro tutto il tempo. Ti aspettavo la mattina, e ci rotolavamo sul tappeto per fare la lotta. Ti conosco, guardavamo assieme i libri. Ti conosco. Era una ottima scuola. Dovevamo essere attenti a tutto: in giardino se vibrava il vento tintinnavano le foglie dei tigli. Se l’ombra copriva il prato ogni verde mutava tonalità. Per sentire la profondità della musica dovevamo accostare l’orecchio al cuore del nostro compagno. E il mio compagno eri tu. Se avessi avuto un figlio lo avrei chiamato Roberto. Ora so perché.
-Mi spiace che non ricordi. Ma non importa.- sussurra Roberto, adagia la testa sul letto e chiude gli occhi.
Così lui esce dalla stanza. Sale verso la sala operatoria. E’ solo in salita la sua vita.
Non c’è molto tempo. Eppure non riesce ad affrettarsi. Si disinfetta meticolosamente. Dà uno sguardo all’orologio, in alto sul muro bianco. E’ tardi, perché Cinzia non ha risposto? A quell’ora è a casa. Prepara la cena, legge un libro, aspetta. Oppure guarda la televisione. Non le è stata di nessun aiuto. Mai. Poteva prendersi una domestica e sarebbe stato lo stesso. E’ stato chiaro da subito per lui che non voleva figli da Cinzia. Lei farneticava di tutte le belle esperienze che avrebbero fatto insieme a un figlio. Lui non lo voleva un figlio. Avrebbe voluto essere figlio di Brandi, per non dover soffrire così a corrergli dietro, ad annuire, a ridere, e intanto rubare dalle sue mani i gesti della professione, a raccogliere le bave dei suoi discorsi, lasciate gocciolare dall’alto, e lui a precipitarvisi sopra, analizzarle, studiarle. Incollato a lui come un camaleonte al ramo.
Entra in sala operatoria. Sono tutti schierati. Parla brevemente con l’anestesista. Controlla con uno sguardo alcuni strumenti, bisturi elettrocoagulatore, pinza da clampaggio aortico, pinza di Klemmer, pinza di De Bakey..che non c’è. Lui non grida in sala operatoria, non offende, non irride. Tutti seguono il suo sguardo. La ferrista immediatamente fornisce il tavolo della pinza di De Bakey e si scusa.
Cominciano a lavorare. Non vede il volto di Roberto, non sente che i suoni delle macchine, gli indicatori che da tempo gli fanno compagnia. Mentre una volta insieme altri suoni regolavano la loro vita. La voce delle madri, il tono di un richiamo. Arriviamo alla tua aorta. Controlliamo, cerchiamo di mantenere la valvola nativa, cerchiamo di non farti fare una terapia anticoagulante, cerchiamo di salvarti Roberto. Mi farò dopo le domande sulla tua vita. Ecco i lembi aortici. Sono intatti. Non si spiega questo sentimento che lo assale, una lieve euforia. Dunque tu abiti ancora nel nostro vecchio quartiere. Dove abita mia madre e forse tu la incontri, e forse la saluti. Ora la protesi tubolare. Non si sente che il suono degli strumenti, loro quasi sussurrano. Ma le note risucchianti e gelide della sala operatoria oggi non sembrano che stravaganti sonorità di archi stonati, e su tutti c’è il tuo cuore, che io intravedo, spinge sulla mia mano, come tu spingevi il respiro sul mio orecchio, e poi ridevi. Il velo del sangue, oggi mi fa paura. Così recitavano quei marmocchi: è il giorno, sia come sia mangerò tuo fratello. Accendi il fuoco nel forno. Apri il forno per me strega, che non ci arrivo, affinché possa gettarci la catasta di legno. Sei una stupida! Demente! Allo stesso modo gridava Brandi strappando di mano ai dottori gli strumenti, lasciando che vibrassero a due centimetri dal paziente, continuo io. Fino al giorno che lui glieli aveva tolti gentilmente dalle mani. La strega sale tre gradini e la bimba la spinge dentro al forno. Dia professore, sta sbagliando, è stanco. Un’operazione come questa. L’intervento di Bentall. Vuoi farlo tu? Ne saresti capace e io ti assisterò. Non potrei professore, ho ancora da imparare. Con gli occhi socchiusi, nella semiombra del corridoio, lo sguardo puntato sulle mani di Brandi, le punte tremule, la testa oscillante. Sali i tre gradini e io ti getterò nel forno. Tu non mi hai concesso niente. Io ti ho tolto tutto.
La sera, a casa, aveva confidato a Cinzia che presto sarebbe tutto cambiato. Parlava molto, e lei era in ombra. Un po’ pallida. Cosa hai fatto oggi? Infine. Niente, lavorato. Anche quella sera c’era del sangue. C’era riuscita quasi a rubargli un figlio. Quasi. Ecco, preserviamo la dinamica dei lembi valvolari, tutti annuiscono. Ora che aveva preso tutto quello che era di Brandi, poteva dire di essere come lui? Una volta, una volta sola, in una sera strana, era primavera, e tornando a casa a piedi perché la macchina era rimasta dal meccanico, lui aveva rivisto il cielo con le rondini, e ai margini dei prati mucchi di margherite, e in un parco qualcuno rideva appresso ai suoi bambini, una sera tornando a casa, forse ride ripensandoci, trova Cinzia in finestra. Che lo guarda da lontano. Allora alza la mano e la saluta. E Cinzia sorride. Gli apre la porta con un certo slancio. E’ pronto in tavola. Mangiano in silenzio, e lei gli dice: Tu sei meglio, molto meglio. E poi squilla il telefono. Ma è sicuro che Cinzia ce l’avesse con Brandi. Ora è sicuro. Allora gli diede fastidio: lui voleva assolutamente apparire come il Brandi. Tu non sei come lui,questo riusciva a ferirlo. Automaticamente significava che non aveva la sua cultura, i suoi soldi, una storia senza miseria, una madre professoressa, un padre, Brandi aveva avuto un padre. Roberto e lui no. Osti coronarici reimpiantati. Lui e Roberto vagavano per pomeriggi interi intorno al campo di fronte casa. Da soli, mentre le loro madri lavoravano. A volte spuntava la loro maestra. Diceva di passare per caso. Li salutava, li avvicinava. Quanto correvano a braccia aperte verso quella donna? Che forse era una ragazza, allora, chi può dire come percepisce l’età di un adulto un bambino. E per caso aveva un libro. E lì c’era un albero e sulle radici si poteva stare seduti. Lei raccontava.
Spesso l’aveva sognata, ma al suo posto c’era Cinzia, che gli sedeva vicino e gli leggeva una storia. In fondo Cinzia gliela ricordava. Era bruna, scarmigliata, con gli occhi ridenti, i maglioni larghi a giro collo, i pantaloni morbidi per correre con loro, le scarpe da ginnastica. Quanto è veloce il cuore di un bambino? Ecco, ora tu hai un cuore nuovo, ti ho ridato il cuore di un bambino. Tace. Un rapido sguardo con l’anestesista, va tutto bene. C’è una atmosfera gravida, feconda. Qualcuno tira il respiro, e per questo gli altri sorridono. Qualcuno dice: salvo! Lo dice con timore, ma non riesce a nascondere l’entusiasmo. Non è mai avvenuto nel suo staff. Al posto degli urli silenzio, freddezza, rigore. Credeva con terrore che le emozioni potessero interferire, distruggergli la carriera. Oggi teme solo che Roberto non viva. Ogni cosa torna al suo posto. La mappa del cuore ricucita.
Ora non c’è che da attendere. Che rientri dall’ipotermia. Che torni il calore del cuore, al centro del petto.
Allora i due bambini correvano per il palco. I due bambini abbandonati. Aprivano i cassetti per cercare cibo, e trovavano diamanti, oro, grossolane pietre preziose. Raccoglievano nel grembiule le gemme e uscivano dalla casa della strega. Questo lo diceva Cinzia, al microfono, e i piccoli eseguivano, con le loro articolazioni acerbe, i movimenti insicuri. Di fronte a loro c’è di nuovo la foresta. Ma ecco, dice Cinzia, come per incanto loro riconoscono la strada e tornano a casa. Non credeva di aver registrato tutto, immagini, intonazioni, colori e movimenti, il brusio dei genitori da cui era circondato, il loro rapimento, creato dalla voce di Cinzia, una voce che non credeva di averle mai sentito. Lui si era solo alzato, in mezzo alla sala, e se ne era andato. Avrebbe detto a Cinzia che la clinica lo aveva chiamato d’urgenza. Semmai lei glielo avesse chiesto. Aveva girato per le strade.
Con la notte opprimente, i fari violenti, nessun silenzio vero, nessuna solitudine. Poi era giunto a casa. Come un cane cieco che conosce la strada al fiuto.
Cinzia non c’era. E quando si era svegliato, forse era già uscita. Si era appena accostato alla libreria, mentre sorseggiava il caffè. C’era una foto, il lembo di una foto tra le pagine di un libro. Aveva posato la tazzina e sfilato la foto. Era una sua foto. Di lui bambino, che Cinzia custodiva nel libro. Erano arrivati a questo? Ora covava la sua foto come una madre? Aveva fantasticato di un figlio, ancora? Allontanandosi bruscamente aveva urtato la tazza di caffè che era rotolata per terra, frantumandosi. Il mio cuore è un coccio rotto. Questo scriveva Cinzia un giorno, lo metteva in bocca ad un elfo, in una storia per i suoi ragazzini. Quella sua vita intensa, lontana, senza flessioni, lo irritava. Lì sul palco, guardava assorbita quei ragazzini danzanti. Perché il cuore, gli aveva chiesto quando si erano conosciuti. E lui ricorda, perfettamente cosa ha risposto. Esce. E’ di nuovo notte. Roberto è in terapia intensiva. Sua moglie non c’è. Non c’era nessuno dietro le vetrate della sala operatoria. Nessuno nel comodo salottino, vicino ad una piccola libreria con alcuni volumi. Nessuno al telefono. Cinzia non risponde. Nessuna stella nel cielo. Passeggia intorno alla clinica. Il bel giardino, gli alti alberi, i viali curati. Non c’è nessuno. L’edificio immerso nella notte appare simile ad una stazione spaziale punteggiata di luci. Sulla panchina dove si dirige per sedersi, distingue un’ombra E questo lo infastidisce. Sta per superarla ma si accorge che è la moglie di Roberto.
-Ha aspettato qui signora? Tutto il tempo- le chiede.
-Si ho preferito.-
Le si siede accanto.
-Non sente freddo? Venga dentro le faccio portare qualcosa di caldo.-
-No, sto bene. Grazie. Solo non posso stare al chiuso. Ho sempre vissuto in campagna e per me vivere qui è difficile. Soprattutto in questa stagione.-
Poteva capirla, non le chiese altro.
-Non voglio disturbarla professore, e ho anche paura a chiedere.- Non lo guardava, si teneva in grembo un borsone di tela.
-E’ andato tutto bene. Ora dobbiamo aspettare.- Si lasciò andare sullo schienale per un momento, un solo momento per sentire i muscoli tendersi sulle stecche della panchina e poi rilassarsi. Un solo momento per respirare l’umidità della notte. Forse avrebbe dovuto andarsene. Forse lei voleva stare sola, ma non lo fece. Sentiva di avere un lontano legame con quella donna. Se non si fossero persi di vista, lui e Roberto avrebbero anche potuto sposarsi nello stesso periodo, e le loro mogli conoscersi, passare le feste insieme, e le gite. Tutte cose che disprezzava, intendiamoci. Inutile girarci intorno, non aveva scelto di vivere in quel modo, perché farsi prendere da questo inopportuno romanticismo? per un uomo malandato che ti ha ricordato l’infanzia? E questa infanzia poi, che non era stata un granchè a ripensarci, ora gli veniva con petulanza a bussare alla porta, dopo che lui l’aveva affondata, affondata, apri il forno e buttala giù. Gli sembra ora che il profumo della notte sia intollerabile. Si alza, con grande premura. Strega, stregata. Un’infanzia stregata.
-Professore- mormora la donna. Armeggia dentro il borsone e tira fuori un cartoccio gli sembra.
-Lei pensa che Roberto ce la farà, vero?- Ma che vuol dire, ma che domanda stupida, sempre la solita, mutuata da qualche romanzetto televisivo che sicuramente si beve questa donna un giorno dietro l’altro.
-Le ho detto che l’operazione è andata bene- si schiarisce la voce, il tono che gli ritorna lo disturba. Aveva giurato a se stesso che non avrebbe mai fatto trapelare nessun fastidio di fronte ai suoi pazienti, o a parenti con la coda tra le gambe. Non è più così impenetrabile l’oscurità. Lei è bionda, ha un soprabito nero. Tra le mani tiene una busta.
-Si signora, come è il suo nome?-
-Angela-
-Si signora Angela, Roberto ce la farà-
-Allora- lei ha la voce così bassa. Lei appena sussurra, sembra tutto così placido intorno a lei. Gli porge la busta. Non vorrà mica dargli dei soldi. Pensa. Non prende la busta. Continua a non capire.
-Roberto mi ha detto che voi due eravate compagni da bambini. Neanche il nome ricordava, ha visto la sua foto su internet e si è ricordato. Ha detto, Angela, ma lo sai chi è il professore che mi visiterà? È Nicchio, mi ha spiegato che sta per Nicola. Era contento ma era anche triste. Ieri mi ha dato questa busta e mi ha detto, se io non vivo dagli questa lettera al professore, altrimenti lascia perdere, gli parlo quando mi sveglio.-
La notte era ora piena di brividi. Forse nei nidi gli uccelli gonfiavano le piume per stare più caldi, forse si era affacciata qualche stella ghiacciata.
– E allora non me la dia. Mi parlerà.-
Ma lei comincia a piangere, e si scusa. Lei l’ha letta. E da sveglio si che parlerà, ma Roberto non gli dirà mai le cose che ha scritto così bene. E’ sua di diritto, proprio perché lo ha salvato.
-La prenda-
-Non le sembra che può portare male?- cerca infine di opporsi, con un argomento così stupido, un po’ per insultarla in fondo, lei che lo infastidisce con queste superstizioni.
Angela scuote la testa, e continua a tendere la busta.
E’ stanco. Non ha voglia di discutere più, con lei, come con Cinzia. Quell’atteggiamento lì, stare sempre con una missiva tra le mani o tra gli occhi, questa comunicazione incessante, lo sfianca. Prende rapidamente la busta.
-Grazie signora- gira sui tacchi e così si congeda. Ristabilisce i suoi passi nella notte, copre la distanza che lo separa dall’entrata del suo studio. Ci si chiude dentro. Letteralmente. Chiude a chiave. Ridicolo. Ma non libera la serratura. Si siede.
Accartoccia la busta e la getta nel cestino.
Perché si sente in frantumi? Non doveva accadere più. Non c’è che un giorno preciso da dimenticare. Il giorno che per strada hanno incontrato suo padre. Lui e la mamma. E c’era anche Roberto. Sua madre lo riaccompagnava a casa quel giorno e loro erano felici e allegri di stare ancora un po’ insieme. Li teneva per mano. Prima di vederlo quell’uomo lui aveva sentito che la stretta di sua madre si faceva più intensa. Lei accelerava il passo. E lui li aveva bloccati. Perché si sentiva andare in frantumi come allora? La lettera, doveva stracciare pure quella. La riprende dal cestino. La liscia con la mano, la apre.
Caro Nicola,
ti ho scritto questa lettera no perché non ho fiducia nelle tue capacità, ma perché non mi fido più del mio cuore. Sono però contento che sia tu a curarmi. Tutto il tempo penserò ai nostri giochi, che sono stati la parte più bella della mia vita.
Sono felice che tu sia diventato tanto bravo. Non ti chiederò di ricordare, ma solo di pensare alla grande contentezza della nostra vita passata, che magari ci ha dato la spinta per diventare delle brave persone. Almeno spero di essere diventato così. Di te non ho dubbi.
Penso ad una cosa, che magari ci potrà consolare se le cose non vanno bene. Penso a quando ci dicevano all’oratorio che saremmo risorti con tutto il corpo. E noi parlavamo, ma il corpo di quale età? Saremo sempre giovani, oppure il corpo dell’età in cui ce ne andiamo? Non so perché questo discorso mi è venuto in mente, Io l’avevo riposto assieme ai pupazzi dell’infanzia. E invece quando ti ho ritrovato ho pensato all’età in cui si è fermata la nostra amicizia. Ad un giorno di sole, sotto un albero, con il tuo orecchio sul mio cuore, e alla maestra che ci diceva, ascolta il cuore del tuo amico.
Se non va tutto bene, pensa che io avrò di nuovo quell’età lì, quel corpo lì e ci rincontreremo e sono sicuro che anche tu mi riconoscerai.
Ti abbraccio amico mio.
Ora si alza, con la lettera tra le mani, che non può separarsene. Guarda fuori della finestra. Sta cominciando il giorno . FINE
Sara Milla 3.4.2011