È avvenuto nel carcere di Perugia, dove un detenuto si è tolto la vita in un carcere tra l’indifferenza e l’assordante silenzio di media.
Si tratta dell’ennesimo fatto drammatico che testimonia l’urgente necessità di intervenire in materia di riordino del sistema carcerario in Italia e sull’organizzazione stessa degli istituti penitenziari dove il numero esorbitante dei detenuti rischia di avere pericolose ricadute sulle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria.
Mentre si assiste ai tentativi di varare leggi ad personam o comunque a tutela della casta politica, le carceri italiane scoppiano e sempre più spesso si assiste ad episodi drammatici quale quello accaduto nel carcere di Perugia.
Un terreno scottante quello del sistema carcerario italiano, dove a scriverne si corre il rischio di facili fraintendimenti e di altrettanto facili accuse da parte di chi vivendo nell’Olimpo, sconosce le miserie umane.
Accade così che in Italia un furto di prodotti alimentari del valore di pochi centesimi, sia punito con la detenzione, contribuendo al sovraffollamento delle carceri, mentre di contro frodi milionarie, se non reati ben peggiori, sembrano quasi legalizzate da parte di quei tanti cittadini assetati di giustizia, o meglio di giustizialismo, che vedono nell’anello debole della catena il capro espiatorio sul quale riversare tutti i peccati di una società ammalata che ha perso il senso della morale, la percezione del reato.
Ero ancora ventenne e di belle speranze, quando lessi il libro di Jack Henry Abbott, “Nel ventre della bestia“.
Il libro più sconvolgente mai scritto sul sistema carcerario americano. Ma chi era Jack Henry Abbott? Un rapinatore che finì detenuto in una prigione americana, dove uccise un uomo e che una volta uscito commise un altro delitto che lo riportò in prigione, dove mise fine alla sua esistenza impiccandosi alla finestra della sua cella.
Ma Abbott non fu un qualsiasi criminale. Fu il criminale letterato più celebre d’ America, autore di best seller e amico del romanziere Norman Mailer, che conobbe durante il suo periodo di detenzione.
Son passati trenta anni da quando lessi quel libro che narrava delle disumane condizioni di vita alle quali erano sottoposti tanti detenuti come Abbott, per arrivare ad oggi e scoprire che anche nei penitenziari italiani le condizioni di vita dei detenuti potrebbero ispirare centinaia di novelli Abbott.
Senza voler far sconti di pena a chi ha sbagliato, senza volermi trasformare nel buonista di turno – che non lo sono affatto -, devo comunque chiedermi che senso abbia un sistema giudiziario e carcerario come quello nostro.
Prendiamo ad esempio la proposta di Gasparri della carcerazione preventiva da utilizzare contro la presunta violenza – tale è se preventivamente condannata – degli studenti nel corso di manifestazioni.
Uno strumento da utilizzare contro chi ancora il reato deve commettere. Un’autentica follia che in nessun paese civile si sarebbe potuta proporre, se non in Italia, dove di civile ci resta ben poco.
Partendo dalla possibile follia di un nuovo ordinamento giuridico fondato sulle probabilità che un uomo commetta un crimine e sulle conseguenze di tale follia in termini di ingiustizia sociale e di implosione di un sistema carcerario ormai al collasso, non è difficile arrivare ad un’analisi di quello che sono oggi le pene inflitte dallo Stato, che non sarebbe difficile indicare come pene afflittive e non certo rieducative per i tanti detenuti che le subiscono.
Ci sarebbe infatti da chiedersi secondo quale logica v’è necessità di trasferire un detenuto lontano dal luogo di residenza della propria famiglia; perché un figlio debba vedere – nei casi più gravi – il proprio genitore una volta al mese; per quale motivo una donna – sia essa compagna o moglie – dev’esser privata del rapporto con il proprio partner.
In molti saranno pronti ad affermare che chi ha sbagliato deve pagare; che alle vittime di questi uomini non è stato concesso sconto alcuno e così via dicendo.
Ma sono questi i principi di una giustizia che in quanto tale dev’esser equa, o stiamo tramutando in giustizia un desiderio di vendetta?
Se misure cautelari quali quelle indicate vengono giustificate con il voler evitare che taluni soggetti detenuti possano mantenere dal carcere collegamenti con l’associazione criminale d’appartenenza, altrettanto non si può dire per detenuti comuni che son costretti a vivere molti degli stessi disagi, senza che apparentemente si possa trovare una spiegazione logica.
E poi, se uno Stato non è in grado di garantire che soggetti pericolosi vengano messi nelle condizioni di non nuocere alla collettività, che Stato è?
Ben vengano allora le Guantanamo americane, i campi di Siberia sovietici, le Auschwitz tedesche.
Un conto è la restrizione della libertà personale – misura coercitiva già di per sé punitiva per qualsiasi uomo – un altro è un sistema crudele fine a sé stesso figlio del fallimento di una giustizia che forse non è mai esistita.
E se questo è già crudele nei riguardi di chi comunque si trova a scontare una condanna definitiva, cosa dire di chi si trova ostaggio per anni di una giustizia che in attesa di deciderne la colpevolezza o l’innocenza, nel negargli l’elementare diritto alla presunzione d’innocenza, gli infligge la pena della crudeltà di un sistema carcerario degno di un nuovo best seller sul “ventre della bestia”?
Così mentre si continuano a difendere i diritti (o presunti tali) di chi può modificar le leggi a proprio piacimento, altri uomini, magari in attesa di processo o condannati per un furto di pochi centesimi, vengono fagocitati dalla bestia per soddisfare le necessità di una giustizia sempre più mediatica e sempre meno equa, fin quando un lenzuolo non mette fine ad un inutile calvario di sofferenza.
Gian J. Morici