Dal 1 gennaio 2011 entra in vigore la nuova cosiddetta riforma del sistema previdenziale (la sesta o la settima negli ultimi 15 anni). Da gennaio non sarà più possibile andare in pensione con meno di 61 anni, ( a meno di averne lavorato 41 anni.) È l’effetto del doppio scalino davanti al quale si troveranno i lavoratori nati dopo il 1951. Entreranno in vigore dal 2011 le nuove regole per l’accesso alla pensione di anzianità previste dalla riforma Damiano del 2007 (l’età minima per uscire passa da 59 a 60 anni per i lavoratori dipendenti a fronte di almeno 36 anni di contributi). Quello che non si dice è che, in virtù delle «finestre mobili» per l’uscita previste dalla manovra di questa estate (12 mesi di attesa una volta raggiunti i requisiti per i lavoratori dipendenti, 18 mesi per gli autonomi) l’età pensionabile viene di fatto innalzata a 62 anni con una nuova “presa per i fondelli”, e chi non ha neppure avuto il coraggio di dirlo chiaro e tondo, si è inventato la bufala delle finiste mobili. Inutile dire che nel nostro paese ci sono decine di migliaia di disoccupati prossimi ai 60 anni che attendevano la pensione come unica possibilità di reddito, e che ancora una volta si vedono spostare in avanti il traguardo con tutto ciò che ne consegue in termini di sopravvivenza. Nulla si dice neppure per coloro che hanno ancora la fortuna di lavorare ed i cui contributi continueranno ad essere versati per il periodo ulteriore di lavoro senza che (nei casi in cui siano stati superati i 40 anni di anzianità) contribuiscano alla maturazione della rendita pensionistica. Ancora una volta, la fregatura è sempre dietro l’angolo e si continua a tacere su argomenti cosi importanti. Giusto è allungare l’età per andare in pensione, ma è altrettanto giusto avere leggi chiare; e che non permettano ad aziende che intendono “ridimensionare i costi” ad accettare loro gli “ESUBERI” al solo scopo di ridimensionare i costi per sul personale sociale, per poi riportarli ad operare presso imprese in appalto o peggio ancora in sub appalto, (precari) non considerando i risvolti negativi della qualità e della sicurezza sul lavoro. Dal 2000, anno in cui ha avuto inizio la mobilità, nella sola Telecom i lavoratori sottoposti alla normativa di mobilità lunga e non solo, sono stati fino ad a tutto il 2005 circa 21707. ( costi che vengono pagati da tutti i contribuenti ). Per l’Inps, il costo di queste procedure si aggira sui 650 milioni d’euro, con un conteggio approssimato per difetto (effettuato solo sui tre anni di mobilità previsti per il Centro-Nord, escludendo il quarto anno previsto per le regioni del Sud e prevedendo che tutti i lavoratori abbiano percepito il contributo mensile minimo), e senza calcolare la mancata contribuzione che l’INPS avrebbe percepito se i medesimi lavoratori avessero continuato a lavorare nei 3 o 4 anni di mobilità.
Agrigento22/11/2010
Il Responsabile del dipartimento lavoro IDV di Agrigento
Emanuele Lo Vato